Club To Club contemporaneo

Da Romitelli ad Arca, passando per Arto Lindsay

Recensione
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La scorsa domenica ha aperto a Torino la rassegna di musica contemporanea In Scena!, a cura del Fiarì Ensemble, con un bel concerto di musiche di Fausto Romitelli: in programma anche Trash TV Trance, un’opera per chitarra elettrica sola del 2002 eseguita dal chitarrista Gilbert Imperial (prossimo appuntamento il 17 novembre al Teatro Vittoria per Professor Bad Trip – qui le informazioni). La sede era il Museo Ettore Fico, in periferia, nuovo spazio dedicato all’arte contemporanea (qui sotto una performance del 2011 a Biennale Musica).

Ha invece aperto mercoledì, sempre a Torino, il più grande festival cittadino e il più importante festival italiano di musica elettronica, "nuovo pop" e dintorni, Club To Club. Dopo la prima serata alla Reggia di Venaria, il festival si è spostato al Conservatorio Verdi, in pieno centro, per il concerto di Arto Lindsay insieme al batterista Paal-Nilssen-Love.

Il parallelismo è del tutto personale (sono gli ultimi concerti che ho visto in ordine di tempo) ma, credo, buono come punto di partenza.

Nel primo caso si ascolta una musica scritta che forza l’interprete a eseguire gesti “innaturali” sulla chitarra – sfregare o percuotere le corde con vari oggetti, staccare e riattaccare il jack… – senza mai risolvere la tensione, senza mai aprire a un riff, a un accordo.

Nel secondo caso, per chi conosce la musica di Arto Lindsay sarà evidente, c’è all’apparenza l’opposto. Lindsay propone il suo personalissimo campionario di effetti chitarristici e free music: corde grattate, feedback, svisate assortite. Il concetto di “improvvisazione” non è particolarmente adatto per descrivere quello che Lindsay fa sul palco, e che rimane tutto sommato unico nel suo genere, ma l’apparenza è quella di una grande libertà. In realtà, Lindsay si dà di fatto un set di regole molto ferree, che rispetta senza eccezioni: per esempio, la regola di non suonare mai un accordo di senso compiuto...

In entrambi i casi – Romitelli e Lindsay – al centro c’è l’idea di non suonare la chitarra (o, se preferite, di non suonarla bene). Soprattutto, c’è l’idea di andare contro le aspettative che il pubblico (e il musicista) hanno della chitarra elettrica. I due risultati – ad ascoltarli senza sapere che cosa c’è dietro – hanno inequivocabilmente molti punti in comune.

Per continuare con il parallelismo, nel primo caso (In Scena!) c’è un bel festival di musiche “colte” che occupa uno spazio periferico della città pensato per le arti contemporanee. Nel secondo, c’è un festival nato anni fa come evento elettronico-dance (con set “da un club all’altro”, come ci ricorda ancora il nome) ed evolutosi negli anni in un festival di “avanguardia e nuovo pop”, che spesso occupa anche i luoghi della musica “colta” (il Teatro Carignano, e quest’anno il Conservatorio).

Più che l’inevitabile riferimento all’“avanguardia” (concetto scomodo, sia quando viene osteggiato apertamente, sia quando è usato in senso positivo), questi intrecci di spazi, pubblici, tradizioni e risultati musicali sono un buon biglietto da visita per una musica che sia veramente contemporanea, nel senso di una musica “di oggi”.

È un buon punto di partenza per raccontare Club to Club 2016. Il concerto di Arto Lindsay non ha deluso le aspettative, come si è accennato: in duo sul palco con il batterista Paal Nilssen-Love (vedi alla voce The Thing, fra le altre cose), Lindsay ha fatto quanto ci si aspettava facesse, benissimo: la sua dodici corde ha “suonato” come al solito, Lindsay ne ha interrotto il feedback intonando il consueto repertorio di brani brasiliani, la cui melodia – sul ricercato vuoto armonico – emerge chiara e limpida… Paal Nilssen-Love segue con un repertorio di suoni ed effetti batteristici che pare infinito, con grande sensibilità e senza mai sovrastare il suono del collega – per quanto a tratti sembri una gara a chi fa più casino (l’acustica del Conservatorio è messa a dura prova).

Un concerto magnifico, che dimostra come quel modo di suonare, di pensare il dialogo fra strumenti, sia più “contemporaneo” (sebbene non più “avanguardia”, da tempo) di tante altre cose più alla moda.

Poche ore dopo, nella Sala Gialla del Lingotto, le “cose alla moda” hanno dimostrato che lo hype è talvolta giustificato. Prima Tim Hecker (già testato dal vivo a Club to Club qualche anno fa), con un set liquido e avvolgente, che parte nella totale invisibilità della nebbia colorata delle macchine del fumo, e che procede per un’oretta senza soluzione di continuità, fra tappeti sonori che si intrecciano e sovrappongono. È un’attitudine da minimalista, quella di Hecker, per come organizza il suo discorso: succede poco, e quando succede qualcosa – una piccola increspatura, l’ingresso di un arpeggio di pianoforte – sembra un evento memorabile. Bel set, anche se rimane alla fine una leggera sensazione di incompiutezza.

Pochi dubbi che l’headliner della prima serata al Lingotto fosse però il producer venezuelano Arca, uno dei nomi più citati nell’ambito del “nuovo pop” – basti pensare che a 26 anni Arca può mettere nel suo curriculum produzioni per Kanye West, Björk e FKA Twigs, oltre a un paio di titoli a suo nome.

La performance – annunciata come un DJ set con i visual del collaboratore abituale Jesse Kanda – è spiazzante. Arca indossa stivaloni con il tacco una giacca da uomo di taglio elegante: una scissione in due del corpo, con due metà – “maschile” e “femminile” – che il tavolo dietro cui il producer mixa divide nettamente ed efficacemente in due. Poi, soprattutto, Arca canta: con una voce che rinforza il suo personaggio androgino, una voce impostata, eterea, che pare fuori dal tempo. L’inizio è emozionante, con il musicista solo sul palco a cantare a cappella, in spagnolo.

Arca tornerà a cantare in altri momenti della serata, lasciando ben sperare per il disco di prossima uscita. La musica che si ascolta nel corso del set è complessa, onnivora, difficile – se non impossibile – da ballare, con continui stop, continui cambiamenti di idee, ritorni sui propri passi, aspettative disattese (ritornano anche qui…). Arca ne è consapevole, e sembra giocarci: come quando inserisce senza preavviso un brano del salsero venezuelano Oscar D'León (il classico “Llorarás”), e lo lascia andare per un bel po’… per trasformarlo poi in un brano rap, e poi ancora inserendo stacchi metal… Le immagini seguono un loro filo, decisamente perturbante, con primi piani sul parto di una mucca, poi di una capra, pesci sventrati, un autolavaggio (!)...

Non tutto è a fuoco, e alla lunga la bulimia dei riferimenti e l’iperattività affaticano. Ma ci sono pochi dubbi che il “nuovo pop” di oggi sia questo: fluido, oltre i confini geografici, oltre i confini di genere – sessuale e musicale.

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