Che fine hanno fatto gli intellettuali? / 2

L’arretratezza culturale ha radici nei paradigmi superati con cui si pensa e insegna la storia della musica

Recensione
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Intelletuali e musica: un nuovo paradigma Di recente Mario Gamba prima e Marco Dalpane poi hanno sollevato il problema del silenzio degli intellettuali della musica. Dalpane in particolare, in un articolo su “Giudizio Universale” e poi su questo blog, ha notato come coloro che organizzano la musica in Italia, soprattutto in campo classico - sovrintendenti, direttori artistici ecc. - scontino una arretratezza culturale che potrebbe essere superata affidando ai musicisti stessi, ben più radicati nel presente, una programmazione che rifletta la reale, sfaccettata complessità della musica oggi.
Non si può non concordare con Dalpane (e con Gamba, che prendeva le mosse da altre considerazioni), e qui vorrei aggiungere un’ulteriore questione, molto specifica. L’arretratezza culturale degli operatori musicali in Italia, e quindi la loro incapacità a cogliere o creare tendenze culturali, ha radici anche nella vetusta concezione della Storia della musica insegnata nei nostri conservatori. La musicologia - che è assai più avanti della nostra manualistica - e la prassi musicale stessa hanno da un pezzo demolito la storia eurocentrica e monolitica della nostra tradizione classica, e in molti aspetti stanno riscrivendone i paradigmi narrativi: la storia delle polifonie, ad esempio, ha fatto passi da gigante, ed oggi siamo in grado di interconnettere le pratiche polifoniche dei Banda Linda dell’Africa centrale con lo jodel svizzero o con certe tradizioni ucraine, e siamo anche in grado di ipotizzare i processi e i passaggi storici che li legano. Ormai nessuno può più parlare di Medioevo senza una solida conoscenza della teoria musicale e poetica araba; e il Mediterraneo rinascimentale, ormai è evidente, era un coacervo di ritmi africani, arabi e afroamericani che avevano in Siviglia il centro di diffusione: la sarabanda (etimologia bantu, per inciso) e la tarantella sono più prossime di quanto crediamo; e non è possibile apprezzare l’habanera di Bizet senza conoscere Gottschalk e Ignacio Cervantes (il più grande compositore cubano). Quando poi si arriva al Novecento il gioco diventa fin troppo facile: ma dubito che nei conservatori italiani si studi la relazione della musica classica indiana con il jazz di Coltrane, il minimalismo e i Beatles.
Più di dieci anni fa Marcello Piras aveva proposto, inascoltato, un programma integrato di storia della musica, aperto a tutti i generi. Oggi quella proposta è ancora più attuale. Viviamo in un’epoca di grandi migrazioni e le culture si incontrano. Ma questo è accaduto sempre: oggi gli storici stanno rileggendo la nostra storia globale come una storia di migrazioni, con il loro intreccio di culture, lingue, beni materiali, esperienze. Un modello del genere aiuta anche la comprensione della storia della musica occidentale e non solo: la famosa “contaminazione” (termine orrendo) è una costante della storia della musica, e si trova in Scarlatti come in Brahms, in Gershwin come in Magister Perotinus, in Ellington come in Vivaldi.
In questo siamo paurosamente arretrati. Se nei vari DAMS è possibile ottenere una formazione più ampia, anche se frammentaria e non sistematica, il conservatorio è ancora molto indietro. Una nuova generazione di direttori artistici, insegnanti, giornalisti, necessita di una visione più ampia della musica. Lo iato tra la prassi effettiva dei musicisti - che improvvisano filologicamente sulle passacaglie barocche, interpretano idiomaticamente i passi brasiliani di Milhaud, intrecciano dialoghi tra jazz e musica araba o si ispirano ai ritmi classici giapponesi - e la rigida e datata formazione storica di chi la musica la gestisce è una delle cause dell’incapacità di tante istituzioni di sintonizzarsi con i fantomatici “giovani”. Non basta inserire il gruppo di world music tra un’Aida e una Madama Butterfly: bisogna cambiare il paradigma di lettura della storia per aprirsi davvero al presente.

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