C Mole
In C di Terry Riley alla Mole Antonelliana
Recensione
oltre
A fine concerto, delle circa duecento persone (più musicisti) galleggianti negli spazi aerei della Sala del Tempio della Mole Antonelliana, rimango per qualche motivo l’unico appollaiato in alto, a scattare foto verso il basso: molti scelgono la prospettiva centrale, l’inchino del direttore e degli orchestrali. Ma un organico cameristico - o una quasi orchestra: i musicisti si spostano e si addensano con il fluire della musica - vista a piombo è un’esperienza straniante (non bisogna soffrire di vertigini, ovviamente) e che tutti dovrebbero fare prima o poi.
È uno degli infiniti punti di vista su un’immagine comune, almeno per chi si occupa di musica, eppure è un punto di vista che non esiste, è uno scarto dalla norma della sala da concerto, una violazione.
Il che è un buon punto di partenza per raccontare In C di Terry Riley orchestrato (un’orchestrazione che prevede in questo caso l’uso creativo ed espressivo degli spazi, non solo dei timbri) da Filippo Del Corno e Carlo Boccadoro con musicisti professionisti e non. La Mole Antonelliana è davvero una gigantesca “scatola sonora”, esempio perfetto di un edificio dall’acustica pessima – almeno secondo i canoni classici – e insieme meravigliosa. Il suono sale, si avvita verso l’alto, rimbomba. I musicisti, in piccoli organici che vanno man mano spostandosi verso il basso, si nascondono alla vista negli allestimenti del museo: la sensazione è di una totale schizofonia, aumentata dai piccoli monitor che diffondono incessantemente la pulsazione guida anche in assenza degli strumentisti, un do acuto secco e ribattuto. I musicisti non si vedono, la musica maschera la sua fonte di provenienza. Un gioco di specchi acustico su un altro gioco di specchi interno alla partitura di Riley, le cui 53 microvariazioni “in do” alludono l’una all’altra all’infinito. In C, quasi un grado zero della scrittura musicale, estremizza la grande contraddizione della musica scritta, condannata a non essere mai uguale a se stessa nonostante tutto. E, in questa sala da concerto totale, a più dimensioni, ogni spettatore si può scegliere il suo personale punto di vista e di ascolto, unico e irripetibile. Il che, dicevo, è un’esperienza che tutti dovrebbero fare, prima o poi.
È uno degli infiniti punti di vista su un’immagine comune, almeno per chi si occupa di musica, eppure è un punto di vista che non esiste, è uno scarto dalla norma della sala da concerto, una violazione.
Il che è un buon punto di partenza per raccontare In C di Terry Riley orchestrato (un’orchestrazione che prevede in questo caso l’uso creativo ed espressivo degli spazi, non solo dei timbri) da Filippo Del Corno e Carlo Boccadoro con musicisti professionisti e non. La Mole Antonelliana è davvero una gigantesca “scatola sonora”, esempio perfetto di un edificio dall’acustica pessima – almeno secondo i canoni classici – e insieme meravigliosa. Il suono sale, si avvita verso l’alto, rimbomba. I musicisti, in piccoli organici che vanno man mano spostandosi verso il basso, si nascondono alla vista negli allestimenti del museo: la sensazione è di una totale schizofonia, aumentata dai piccoli monitor che diffondono incessantemente la pulsazione guida anche in assenza degli strumentisti, un do acuto secco e ribattuto. I musicisti non si vedono, la musica maschera la sua fonte di provenienza. Un gioco di specchi acustico su un altro gioco di specchi interno alla partitura di Riley, le cui 53 microvariazioni “in do” alludono l’una all’altra all’infinito. In C, quasi un grado zero della scrittura musicale, estremizza la grande contraddizione della musica scritta, condannata a non essere mai uguale a se stessa nonostante tutto. E, in questa sala da concerto totale, a più dimensioni, ogni spettatore si può scegliere il suo personale punto di vista e di ascolto, unico e irripetibile. Il che, dicevo, è un’esperienza che tutti dovrebbero fare, prima o poi.
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