Biennale, Italia-Usa
Sentieri Selvaggi e Bang On A Can, ensemble alla Biennale
Recensione
classica
Lo si potrebbe “leggere” come una sorta di partita/confronto tra Italia e Stati Uniti, il lunedì della Biennale Musica, che presenta i concerti di Sentieri Selvaggi e Bang On A Can All-Stars.
Sarebbe una buona trovata per attirare l’attenzione nelle prime due righe di un articolo, ma onestà vuole che l’abbinamento venga inquadrato più correttamente per quello che è, cioè due programmi dedicati a formazioni che, ciascuna con la propria storia e cifra, sono riuscite a connotarsi in modo preciso per la qualità e la capacità di definire un rapporto efficace tra il repertorio, gli esecutori e un pubblico che possa andare anche al di là della solita cerchia degli appassionati (sempre più coincidenti con una platea di “addetti ai lavori” e colleghi) che frequenta le sale della contemporanea.
Due programmi che possono dialogare.
Nella Sala delle Colonne di Ca’ Giustinian Sentieri Selvaggi costruisce un interessante scaletta di compositori italiani di varie generazioni (si va da figure come Marcello Panni e Fabio Vacchi ai “quarantenni” Perocco e Antonioni), occasione che offre alla formazione diretta da Carlo Boccadoro la possibilità di giustapporre stili e pratiche, ben sintetizzati dallo stesso Boccadoro nelle brevi e efficaci presentazioni informali di ciascun pezzo.
Un programma fluido e eseguito con la consueta freschezza e attenzione dall’ensemble milanese, aperto dallo scoppiettante Soul Brother n.1 dello stesso Boccadoro (sugli scudi al vibrafono Andrea Dulbecco) e che ha trovato i suoi esiti migliori nell’originale lavoro timbrico del pezzo di Filippo Perocco – in questi giorni al lavoro sull’opera che aprirà la stagione della Fenice – e nell’accuratissima tessitura di Da cosa nasce cosa di Francesco Antonioni, omaggio a Bruno Munari che colpisce per equilibrio e bellezza.
Al Teatro alle Tese, i Bang On A Can All-Stars portano un estratto dal progetto Field Recordings, al quale hanno contribuito molti compositori sullo stimolo di una fonte precedentemente registrata, audio o video.
La cifra del sestetto, estremamente brillante e ben coadiuvata dalla presenza del video, è di quelle che conquistano al primo colpo – specialmente in un ambiente storicamente ingessato come quello della contemporanea – grazie a esecuzioni nitide a servizio di lavori in fin dei conti non sempre memorabili.
Le cose più stimolanti – in una certa uniformità di approccio post-minimalista – vengono dalla formidabile vena cut up di Christian Marclay, dalle soluzioni lisergico/gommose di Tyondai Braxton o dall’intensa Seven Sundays di Todd Reynolds, costruita sulla viscerale vocalità di predicatori neri, nonché dal divertente bis, affidato alla penna di Nick Zammuto dei The Books.
Non c’è molto di nuovo nell’approccio scelto, piuttosto attento a seguire la fonte sonora (o video) armonizzando voci – con tecnica che dall'homeless di Jesus' Blood Never Failed Me Yet di Gavin Bryars è giunta oggi ai dilaganti video di YouTube in cui un discorso viene armonizzato con degli accordi, o alle ottime cose fatte da Chassol – e lasciando ben chiaro e leggibile il legame con la fonte.
Ci pensavo durante il concerto, riandando invece alle “fonti volutamente non (bene) identificabili” che stavano alla base di alcuni pezzi ascoltati nel pomeriggio da Sentieri Selvaggi, quello di Colombo Taccani (che parte da un frammento dei Genesis) o quello di Filippo Del Corno, che guarda a musiche degli anni Ottanta…
Evidente una differenza d’approccio tra i compositori del progetto Bang On A Can (alcuni provenienti dal mondo dell’elettronica o della popular music, altri comunque solidamente radicati in una linea di immediatezza ipnotica) e i bravi colleghi italiani, a volte più legati a pratiche compositive più articolate in cui capita che quello che arriva all’ascoltatore sia inferiore alla somma dei validi ingredienti (è un discorso che faccio in generale, tengo a precisarlo, dal momento che Sentieri Selvaggi è tra gli ensemble che meglio lavorano in direzione della comunità di ascoltatori).
Mondi non necessariamente inconciliabili, anzi. E se non era una partita Italia-Usa, l’abbinamento è stato comunque stimolante – e complessivamente di alta qualità – e ci racconta di mondi in cui la creatività di chi scrive la musica e di chi la esegue meriterebbe ancora più spazio nell’attenzione – facilmente distraibile, come si conviene oggidì – di nuovi ascoltatori.
Sarebbe una buona trovata per attirare l’attenzione nelle prime due righe di un articolo, ma onestà vuole che l’abbinamento venga inquadrato più correttamente per quello che è, cioè due programmi dedicati a formazioni che, ciascuna con la propria storia e cifra, sono riuscite a connotarsi in modo preciso per la qualità e la capacità di definire un rapporto efficace tra il repertorio, gli esecutori e un pubblico che possa andare anche al di là della solita cerchia degli appassionati (sempre più coincidenti con una platea di “addetti ai lavori” e colleghi) che frequenta le sale della contemporanea.
Due programmi che possono dialogare.
Nella Sala delle Colonne di Ca’ Giustinian Sentieri Selvaggi costruisce un interessante scaletta di compositori italiani di varie generazioni (si va da figure come Marcello Panni e Fabio Vacchi ai “quarantenni” Perocco e Antonioni), occasione che offre alla formazione diretta da Carlo Boccadoro la possibilità di giustapporre stili e pratiche, ben sintetizzati dallo stesso Boccadoro nelle brevi e efficaci presentazioni informali di ciascun pezzo.
Un programma fluido e eseguito con la consueta freschezza e attenzione dall’ensemble milanese, aperto dallo scoppiettante Soul Brother n.1 dello stesso Boccadoro (sugli scudi al vibrafono Andrea Dulbecco) e che ha trovato i suoi esiti migliori nell’originale lavoro timbrico del pezzo di Filippo Perocco – in questi giorni al lavoro sull’opera che aprirà la stagione della Fenice – e nell’accuratissima tessitura di Da cosa nasce cosa di Francesco Antonioni, omaggio a Bruno Munari che colpisce per equilibrio e bellezza.
Al Teatro alle Tese, i Bang On A Can All-Stars portano un estratto dal progetto Field Recordings, al quale hanno contribuito molti compositori sullo stimolo di una fonte precedentemente registrata, audio o video.
La cifra del sestetto, estremamente brillante e ben coadiuvata dalla presenza del video, è di quelle che conquistano al primo colpo – specialmente in un ambiente storicamente ingessato come quello della contemporanea – grazie a esecuzioni nitide a servizio di lavori in fin dei conti non sempre memorabili.
Le cose più stimolanti – in una certa uniformità di approccio post-minimalista – vengono dalla formidabile vena cut up di Christian Marclay, dalle soluzioni lisergico/gommose di Tyondai Braxton o dall’intensa Seven Sundays di Todd Reynolds, costruita sulla viscerale vocalità di predicatori neri, nonché dal divertente bis, affidato alla penna di Nick Zammuto dei The Books.
Non c’è molto di nuovo nell’approccio scelto, piuttosto attento a seguire la fonte sonora (o video) armonizzando voci – con tecnica che dall'homeless di Jesus' Blood Never Failed Me Yet di Gavin Bryars è giunta oggi ai dilaganti video di YouTube in cui un discorso viene armonizzato con degli accordi, o alle ottime cose fatte da Chassol – e lasciando ben chiaro e leggibile il legame con la fonte.
Ci pensavo durante il concerto, riandando invece alle “fonti volutamente non (bene) identificabili” che stavano alla base di alcuni pezzi ascoltati nel pomeriggio da Sentieri Selvaggi, quello di Colombo Taccani (che parte da un frammento dei Genesis) o quello di Filippo Del Corno, che guarda a musiche degli anni Ottanta…
Evidente una differenza d’approccio tra i compositori del progetto Bang On A Can (alcuni provenienti dal mondo dell’elettronica o della popular music, altri comunque solidamente radicati in una linea di immediatezza ipnotica) e i bravi colleghi italiani, a volte più legati a pratiche compositive più articolate in cui capita che quello che arriva all’ascoltatore sia inferiore alla somma dei validi ingredienti (è un discorso che faccio in generale, tengo a precisarlo, dal momento che Sentieri Selvaggi è tra gli ensemble che meglio lavorano in direzione della comunità di ascoltatori).
Mondi non necessariamente inconciliabili, anzi. E se non era una partita Italia-Usa, l’abbinamento è stato comunque stimolante – e complessivamente di alta qualità – e ci racconta di mondi in cui la creatività di chi scrive la musica e di chi la esegue meriterebbe ancora più spazio nell’attenzione – facilmente distraibile, come si conviene oggidì – di nuovi ascoltatori.
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