Berlino contemporanea II

Antico e moderno a Infektion

Recensione
classica
I sabati berlinesi sembrano somigliarsi tutti, con l’allegro sciamare notturno del popolo più giovane. Sotto altri aspetti, bastano condizioni meteo opposte per colorare diversamente appuntamenti già in sé assai differenziati: l’ultimo, afosissimo week-end (curiosamente analogo a quello che, circa 70 anni fa, accolse i ‘grandi’ della Conferenza di Potsdam) consigliava il rifugio in luoghi freschi e climatizzati, per ascolti più meditativi che conturbanti: l’ideale per immergersi nel concerto che, entro il festival ‘Infektion’, è annodato al filone ‘timbrico’, proponendo un montaggio alternato di musiche del secondo Seicento inglese e di brani contemporanei, più o meno collegati al cantus firmus ‘In nomine’ caro agli autori per consort di viole. Il vasto palcoscenico dello Schiller Theater mal si adatta alle raffinate trame contrappuntistiche e alle sottili durezze armoniche di Purcell & co., per cui – anche per una non equilibrata distribuzione dei brani tra le due parti – l’esperienza d’ascolto non è riuscita a strutturarsi al meglio. Bravi comunque tutti gli interpreti.

La temperatura ancora fresca del precedente week-end, invece, favoriva esperienze più frizzanti e provocatorie, quali quelle offerte da Originale, la leggendaria pièce congegnata da Stockhausen nel 1961 con la pittrice Mary Bauermeister: ottima scelta della programmazione dedicata da ‘Infektion’ a Fluxus, che viene richiamato anzitutto nel titolo (gli originals sono le persone quali sono nel mondo di tutti i giorni), nei coinvolgimenti d’epoca e nella concezione drammaturgica. Di Originale sono attestate due realizzazioni storiche, quella del debutto del 1961 a Colonia (di cui si favoleggiano i tagli alle cravatte e il rovesciamento di zuppa bollente, da parte di Nam June Paik, sulle teste degli attoniti spettatori) e, nel 1964, quella a New York (di cui esiste un documento audio-video); la pièce è stata ripresa solo rarissimamente e sempre senza l’apporto dell’autore, per cui l’edizione berlinese era molto attesa, e difatti il pubblico ha affollato la piccola sala della Werkstatt, rendendo angusti gli spazi per i movimenti degli stessi performer (ciò in spirito decisamente Fluxus). La realizzazione berlinese non ha voluto essere una ricostruzione delle prime esecuzioni, ma forse non era neppure una libera reinvenzione del canovaccio di Stockhausen: il dubitativo è d’obbligo, poiché nessun testo introduttivo (storico o registico) è stato predisposto per l’occasione, ma sembra chiaro che il criterio del montaggio di suoni-parole-azioni congegnato nel 1961 lasci aperti ampi spiragli di intervento, soprattutto per la rilettura-sostituzione degli elementi impiegati negli anni Sessanta e strutturati probabilmente in un dispositivo di scene/contenitori. Gli ‘Aktionsmusiker’ sono così diventati un variegato (reggae, rap…) complesso da strada, ma logicamente non sono stati pregiudicati i pannelli musicali di Stockhausen (Kontakte, nella versione con pianoforte e percussioni, eseguito dal vivo, più registrazioni di altri brani), e anche la lettura di un testo basato sugli slittamenti fonetici da parola a parola è sembrata una voluta citazione delle performance originarie di Helms. L’allestimento è parso fedele – e riuscito – almeno su un piano: l’articolazione centrifuga dello spazio di azione, che impedisce il costituirsi di un fuoco di attenzione privilegiato e di una gerarchia spazio-scenica; l’esecuzione è iniziata perciò con i performer ammassati su una pedana centrale, dalla quale hanno debordato nel pubblico al suo intorno, per far accomodare poi sulla pedana il pubblico stesso e agire loro stessi negli spazi perimetrali, privilegiando quanto possibile il movimento sul posizionamento. Unica eccezione, il siparietto del finale, per sancire la fine dello spettacolo, ma tornare subito a praticare circolarmente lo spazio per raccogliere l’applauso (convinto e caloroso) del pubblico.

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