Arcadi Volodos, visionario e ultraromantico
Al Del Monaco di Treviso il solista entusiasma il pubblico
Il programma che Arcadi Volodos ha offerto al pubblico del Teatro Del Monaco di Treviso è insieme un saggio di pianismo ai più alti livelli e una lezione di storia della musica in concreto. Perché impaginare la Sonata in la minore opera 42 di Schubert (composta nel 1825) affianco ai Davidsbündlertänze di Schumann (1837) risulterà evidente dalla concezione circolare di queste composizioni, accostate durante la sera del 7 marzo, che sfociano infine nella Rapsodia ungherese n. 13 (1847) di Liszt trascritta dallo stesso Volodos. C’è stato anche chi (vox populi…), fra il pubblico, ha pensato fosse un programma complesso, monumentale, ostico: non possiamo dar loro torto. Una sfida musicale, certo, impegnativa. E stravinta.
Sorprende la naturalezza con cui il pianista si siede allo strumento ed è subito dentro alla musica: un inizio periglioso quello della Sonata di Schubert - o, come la intitolò, Première Grande Sonate -, in levare, in pianissimo (e con un mordente prima della seconda nota). In questa “Grande Sonata” Volodos mostra dunque nel primo movimento una gamma di dinamiche estremamente differenziata - richieste da Schubert che intesse quelle pagine di moltissime indicazioni precise fortepiano, fortissimo, sforzato etc…-, e un procedere rapsodico: ciò è dovuto all’inconsueta struttura di questo “Moderato” ed è evidenziata da cesure nette (i ritornelli) che Volodos ben sottolinea calibrando forza e volume sino alla cadenza e alla conclusione fatale. L’Andante, poco mosso - sorprendente tema con variazioni - ci restituisce un interprete dal suono lieve e dolce, che canta intimamente, come se fosse nel salotto di casa sua e felicemente dimentico di chi gli sta attorno. Tale inclinazione si dissolve nello Scherzo per far posto a una cantabilità salottiera, presentando quello Schubert della Haus-Musik (di nuovo, poi, raccolto in sé stesso nella stasi del Trio) e gettando un ponte verso lo Schumann che ascolteremo subito dopo. Osservando Volodos al pianoforte non abbiamo potuto far a meno di pensare a tutta quell’iconografia che raffigura i compositori romantici addormentati su loro pianoforte in preda ai sogni musicali che partoriscono, come nuvole, dalla testa una fantasmagoria di temi, idee, personaggi. Ci è parso, per un momento, che nel Rondò di Schubert, s’infilasse dunque, il Florestano di Schumann (ma sarà stata una nostra visione, nella penombra del teatro, chissà) o uno dei commilitoni della Lega di Davide.
Enorme varietà interna e differenti personalità presentano i Diciotto pezzi caratteristici per pianoforte, Davidsbündlertänze (Danze della Lega dei compagni di Davide), op. 6 che richiedono all’interprete di essere un po’ funambulo, giostrandosi, nel giro di pochi minuti brani dal carattere diversissimo e assai arduo. Il continuo variare delle richieste che Schumann fa al pianista in questi ritratti rendono la “Lega dei compagni di David” una sorta di incunabulo che pretende una personalità multipla e multiforme a chi lo interpreta (e non tutti, ovviamente, hanno in sé tali contraddizioni): e certamente Volodos plasma appieno le sue idee musicali (chiaroscurate come lo Schubert di prima) attraverso il mutevole, colorato caleidoscopio di Schumann facendolo, apparentemente, senza alcuno sforzo. In fondo, i personaggi-alter ego di Schumann che leggiamo, eternati nella sua Nuova rivista musicale, e che ascoltiamo in queste miniature pianistiche, desiderano battagliare col fantasma di Chopin (nel numero 10, ad esempio, in re minore, “in stile di Ballata”), dire la loro con un sussurro o battere i pugni sul tavolo, fare un pandemonio (magistrale lo scarto tra il n. 13 “selvaggio e divertente” e il successivo, “dolce e cantabile”) e Volodos gli presta il suo corpo e le sue mani, facendosi sublime strumento di Schumann. Volodos, nella sua immaginifica interpretazione del penultimo brano (“Come di lontano”) e dell’ultimo sogno, ci suggerisce se, proprio a questa altezza non cantassero, già nel 1837, vent’anni prima della morte, le “voci angeliche” che tormenteranno Schumann.
Se sinora la briglia sciolta della fantasia pianistica è agitata con sapienza dall’interprete d’eccezione, con Liszt il livello di manipolazione del virtuoso-funambulo sul pubblico s’è alzato: la Rapsodia ungherese in la minore trasformata da Volodos ha un che di mefistofelico e incantatorio che soggioga gli ascoltatori presenti trasformando l’entusiasmo crescente da Schubert a Schumann in un boato. In un battibaleno, il cerchio si chiude e il cromatismo malinconico della Rapsodia ci catapulta all’indietro, come in un cannocchiale sonoro, all’inizio in levare della Sonata di Schubert. Tutto si tiene.
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