Antonacci & Poulenc
La Antonacci nella Voix Hhumaine apre la serie di concerti sinfonici dell’Opera di Roma
Era in forma di concerto ma ad Anna Caterina Antonacci è bastato ritagliarsi uno spazio di non più di un paio di metri davanti all’orchestra, con un telefono rosso poggiato su un cubo nero come unica scenografia, per fare della Voix humaine un pezzo di teatro indimenticabile. Uno spazio così ristretto ha anzi valorizzato la sua recitazione, in cui non c’era un solo gesto superfluo, perché questa donna parla al telefono, sola nella sua stanza e sa che nessuno la osserva: quindi non ha bisogno di recitare e i suoi sguardi e i suoi movimenti rispecchiano solo la sua psiche tormentata, che tenta di aggrapparsi ai ricordi e alle ultime illusioni, man mano spazzate via dalla implacabile realtà. L’attenzione di ogni singolo spettatore è magnetizzata dalla sua recitazione, ma alla Antonacci per ottenere questo risultato sarebbe bastata la sola voce, che raggiungeva una totale fusione tra parole e canto e scavava nel testo di Cocteau con una duttilità di accenti e una varietà di espressioni che non avevamo sentito mai, o forse solo da qualche grandissima attrice. Nulla era esagerato e melodrammatico, ché anzi questa donna distrutta dall’abbandono dell’uomo amato cerca fino all’ultimo di conservare il suo tono charmeur e perfino un po’ mondano, sia per illudere se stessa sia per non sembrare patetica a lui. Ma da crepe sempre più ampie si affaccia il mostro dell’angoscia che la attanaglia, fino al crollo finale.
La genialità di Poulenc sta nel mostrarci questa agonia con la fedeltà documentaria di una telecamera, senza sentimentalismo, perfino con spietatezza. L’orchestra registra tutto con la precisione scientifica di un sismografo e Maxime Pascal è un ago sensibilissimo ad ogni minimo movimento della psiche della protagonista.
Questo giovane direttore francese, che si è già fatto un nome come specialista della musica contemporanea, nella prima parte del concerto ha presentato una suite di danze estratte da Powder her face, l’opera di Thomas Adès che tanto successo ha avuto in mezzo mondo, al punto di essere stata ripresa da vari teatri italiani, di solito piuttosto sordi a quel che succede a livello internazionale nell’opera contemporanea. Adès, eclettico e lontano da ogni intellettualismo, scrive con grande abilità e riesce ad accattivarsi il pubblico anche con una musica graffiante e “cattiva“ come queste danze, che esprimono tutta l’antipatia del compositore per l’alta società inglese protagonista della sua opera.
Poi Rendering di Berio. Composto nel 1990 su commisisone del Concertgebouw, questo pezzo si basa sugli abbozzi per una sinfonia scritti da Schubert negli ultimi mesi di vita. Berio ha affermato che il suo non voleva essere un tentativo di completamento ma piuttosto un restauro condotto con gli stessi criteri scientifici con cui operano oggi i restauratori di un’opera pittorica. A me sembra piuttosto che Berio abbia operato come Evans nel restauro del palazzo di Cnosso, usando il cemento e altri materiali assolutamente estranei all’epoca dei reperti e inventando intere scene sulla base di pochi frammenti di affresco. Ma va bene così, perché in questo caso Berio non ha distrutto nulla, gli abbozzi di Schubert sono ancora lì, intatti. Quel che ha fatto è intessere – lui che era stato uno dei portabandiera dell’avanguardia - un dialogo con un compositore del passato, mescolando la sua musica e quella di Schubert e lasciandosi affascinare da questa commistione fino a scrivere oltre mezz’ora di musica, sulla base dei pochi e frammentari abbozzi di Schubert.
Naturalmente con Adès, Berio e Poulenc non si poteva sperare di riempire il teatro, ma il successo è stato molto caloroso, specialmente per la Antonacci.
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