AngelicA, immaginando si impara
Si chiude un'edizione esaltante di AngelicA a Bologna, con Matmos, Anthony Braxton e ONCEIM
Trentaduesima edizione del festival Angelica a Bologna: un mese di musiche non euclidee, con nomi di primissimo piano come Ernst Reijseger, Anthony Braxton, Matmos, nuove leve come Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp, pioniere come Suzanne Ciani, ensemble di largo respiro come ONCEIM, e molto altro. Avremmo voluto vedere tutto, ci siamo accontentati di tre concerti. Ecco com'è andata.
Matmos, 29 maggio
Esecuzioni di Stockhausen e Tenney, la presentazione del disco di Weight & Treble nel Megastore di Sonic Belligeranza in Via Mascarella (andate a vedere di che si tratta, ne vale davvero la pena), Laura Agnusdei, Tomoko Sauvage. Niente male come offerta musicale per una domenica uggiosa di fine maggio a Bologna, no? Ciliegina sulla ricca torta, il doppio set di Matmos, frutto di una residenza al San Leonardo in compagnia del loro fonico di fiducia, e bolognese doc, Gianluca Turrini, con loro da sedici anni, per l'occasione anche curatore della serata.
– Leggi anche: Matmos, saluti da Varsavia
Sorridenti e ironici come sempre, Drew Daniel e Martin C. Schimdt confermano il loro ruolo di autentici mattatori della scena elettronica mondiale. Daniel presenta il duo come lo squalo e la sirenetta dell'elettronica, in italiano. Dopodiché, più che un concerto, inizia un happening. Si parte dal disco Plastic Anniversary, del 2019. Plastic is everywhere: is in your body, in the streets, in the air. We're fucked, but also plastic» Schmidt suona un contenitore (ovviamente di plastica) che diventa via via una specie di tromba post-free sui cui stridori il suo partner in crime fa fiorire una giungla percussiva, campionando, montando e smontando.
La musica di Matmos è un inno alla gioia, alla creatività nell'epoca del disastro, un prototipo di umanesimo per questi tempi post-umani: un audioblob geniale in cui tutto suona: un vinile dei Bread, rotto in mille pezzi davanti a noi, diventa una corda di un (im)possibile strumento africano. «La musica è tutto quello che si ascolta con l'intenzione di ascoltare musica» diceva Luciano Berio, e cosa sono questi strambi ed esatti prototipi creati a quattro (ma a volte anche molte, molte di più) mani da questi scienziati pazzi del suono se non una perfetta dimostrazione di questo assunto? «Simple is the key», dice Schmidt quando istruisce la platea quando si tratta di suonare alcuni shakers che sono stati lasciati sulle sedie per un pezzo dove i due scendono dal palco e con due casse bluetooth vagano per il teatro. «Arte povéra», ribadisce Daniel: sinfonie da una discarica, Merzbau elettroacustici, performance, teatro, umorismo; uno spettacolo divertente e imprevedibile, il lato più accogliente e pop dell'avanguardia. Nella seconda parte vengono diffusi due video (opera di Schmidt) in esafonia, con due tracce dall'ultimo lavoro, "Regards Uklony dla Boguslaw Schaffer: Anti-Antiphon (Absolute Decomposition)" e "Tonight, There Is Something Special About The Moon": un'immersione nell'altrove.
L'ultima parte del live è occupata da un medley da composizioni dei dischi A Chance To Cut Is A Chance To Cure (2001, composto principalmente con suoni di procedure mediche di vario tipo) e The Consuming Flame, il caleidoscopico, torrenziale triplo del 2020, dove i nostri hanno chiesto il contributo di ben 97 altri musicisti. Ovviamente, si vira ancora verso territori totalmente altri: mentre il video mostra un paesaggio disabitato da un finestrino in movimento, Schmidt imbraccia la chitarra e preannuncia, sorridendo, che ora suonerà un po' di “musica”.
In quelle virgolette e in quel sorriso c'è tanto del senso profondo del loro approccio al suono. Una specia di hillbilly alieno, poi , quando meno te l'aspetti, un flauto da naso, luci al neon che crepitano (ricordi di uno spettacolo favoloso di Cellule D'Intervention Metamkine, una vita fa al Rec Festival di Reggio Emilia) e diventano le basi per un trip ambient-psichedelico, come un Terry Riley passato in lavatrice, e poi chissà cos'altro ancora, che ora non ricordiamo più perché di un concerto del genere si sarebbe dovuta fare la cronaca come di una partita di calcio, minuto per minuto. «Parte di ciò che faremo assomiglierà più a un DJ set traballante, altro a una diffusione elettroacustica. Sarà serio, e potrebbe essere divertente. Passerà attraverso gli stanchi cliché di cosa sia la musica attuale e, si spera, porrà domande su cosa potrebbe diventare».
Grandi, grandi, grandi Matmos.
Anthony Braxton Quartet, 3 giugno
Come sempre radicale nel miglior senso del termine, e inconfondibile per la lingua unica e affilata, di cui mostra un capitolo inedito, è la proposta dal compositore di Chicago (che proprio nei giorni del concerto festeggia le sue settantasette primavere). Lo fa con una prima italiana, un quartetto di sassofoni che lo vede in compagnia di Chris Jonas, James Fei e Ingrid Laubrock (protagonista di recente di un bel duo con Andy Milne su Intakt).
Nella presentazione del concerto l'elettronica, messa in azione dal leader, viene presentata come quinto elemento e nucleo dialogante con gli interpreti; per quanto abbiamo ascoltato, la sua funzione reale pare più quella di un fondale dal quale prendono vita verticale le architetture e i viaggi aerei e densissimi delle ance, che portano il folto pubblico (il concerto è sold out) in luoghi molto lontani da ciò che siamo soliti definire jazz. Accade spesso con Braxton.
Opportunamente Massimo Simonini, presentando la serata, cita Stockhausen, e in effetti il disegno di queste musiche è imprendibile proprio come quelli ideati dal genio tedesco. Colpiscono l'entusiasmo visibile dell'autore di For Alto, la sua grande energia e la voglia di continuare a spingere sull'acceleratore, attitudine che lo accomuna ad esempio a Roscoe Mitchell.
La musica del quartetto è difficile da raccontare: a chi scrive sono venuti in mente viaggi nelle galassie, un'ascensione in spazi interstellari dove la gravità perde il suo magistero e le regole si sovvertono; uno dei musicisti tra i tanti presenti in sala dice che ogni sera il quartetto si cimenta con una partitura nuova che non è stata prima presentata agli interpreti; secondo un altro invece certe parti devono essere state per forza provate, ed in effetti ci sono alcuni frangenti con unisoni e strutture chiuse che lasciano supporre sia così. Tutto questo, al netto dei dubbi sulla natura di un'entità acustica refrattaria alle definizioni, in una architettura aperta, dove Braxton tiene le redini e gli spazi per le invenzioni estemporanee sono senz'altro previsti. Saremmo curiosi di vedere la partitura di ciò che abbiamo ascoltato, per capire meglio. Ma questa musica forse chiede proprio qualcos'altro: di spegnere la volontà di interpretare e di perdersi, come in una selva.
ONCEIM, 4 giugno
L'Orchestra de Nouvelles Créatione, Expérimentations et Improvisations Musicales, un ensemble di 32 musicisti diretto da Fréderic Blondy, è alla sua prima italiana. Il progetto esiste da una decina d'anni e ha la particolarità di essere composto da musicisti che fanno ricerca individuale sul suono; pertanto la sfida dell'orchestra è quella di creare musica d'insieme partendo proprio dalle abilità dei singoli membri. Tra questi citiamo al violino Silvia Tarozzi, autrice dello splendido Mi specchio e mi rifletto per Unseen Worlds, e al violoncello Deborah Walker , responsabile con la sua compagna artistica di lunga data di Canti di guerra, di lavoro e d'amore, in uscita proprio in questi giorni sempre per la prestigiosa etichetta americana.
Il programma prevedeva inizialmente l'esecuzione di Occam Ocean di Éliane Radigue e poi del primo pezzo scritto da Jim O'Rourke per orchestra e nastro, in prima italiana, Flocking Gliders, Again and Again I Have Heard. In realtà avviene il contrario e, complice un po' di ritardo nell'inizio e una pausa di venti minuti tra un pezzo e l'altro, e soprattutto l'incompatibilità tra l'orario del secondo set e quello del treno, il cronista a malincuore si vede costretto a rinunciare all'ascolto del pezzo della Radigue. La composizione di O'Rourke lascia perplessi alcuni; chi scrive confessa di essere poco obiettivo nei confronti di questo musicista, nei confronti del quale nutre una stima sconfinata. Il pezzo è un lento mare traversato da lampi, avvisaglie, venti di tempesta, con qualcosa del respiro avant-pop con cui ai tempi di Eureka ci ha fatto prigionieri, come filtrato e messo in circuito. I movimenti ariosi di un piano vagamente à la Steve Reich su cui fioriscono fiati che sanno di Van Dyke Parks, e in generale l'idea di un canto nitido che si eleva dalle ceneri di un'apocalisse. C'è spazio anche per divagazioni free e per una fisarmonica che emerge dal caos, come voce di naufrago.
Ci vediamo l'anno prossimo, Angelica. «Immaginando s'impara» (Massimo Simonini).
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