Alla festa di Erik Satie
Al Teatro Miela di Trieste si festeggia il compleanno di Satie, quest’anno con il violoncello di Francesco Dillon
Qualcuno si chiederà perché un critico musicale dovrebbe andare al Teatro Miela di Trieste il 17 di maggio per festeggiare il compleanno di Erik Satie, compositore che così si esprimeva: «Essi [i critici] non sono soltanto i creatori dell’Arte critica, somma tra tutte le arti, ma sono anche i più grandi pensatori del mondo, i liberi pensatori mondani, per così dire […] Ci sono tre specie di critici: quelli che contano; quelli che contano meno; quelli che non contano affatto. Queste due ultime specie sono introvabili […] Il cervello di un critico è una specie di magazzino, di grandi magazzini».
E qui mi fermo.
«Ci sono tre specie di critici: quelli che contano; quelli che contano meno; quelli che non contano affatto. Queste due ultime specie sono introvabili».
Questo diceva Erik Satie nel 1918 nella sua conferenza Elogio dei critici. Fondamentalmente, tornando al quesito iniziale, andiamo a Trieste non solo perché convinti che vivremo lì un’esperienza frizzante e informale, ma anche perché al compositore francese, in nome del suo ruolo nella storia della musica, perdoniamo tutto anche queste libere ed esilaranti escursioni sulla categoria, che aderiscono tra l’altro al suo costante e pittoresco stile provocatorio.
– Leggi anche: SatiePandémie, buon compleanno Satie!
Andiamo anche probabilmente spinti da un sotterraneo senso di colpa, quello di essere stati a volte più attratti dalla singolarità del personaggio, tra dada e surrealismo, e meno attenti ai valori di un percorso musicale unico che passa da un cromatismo armonico dal taglio impressionista ad una poetica semplificazione contrappuntistica legata alla scoperta del mondo dello spettacolo, del caffè-concerto, del circo, del piacere di vivere.
Al Teatro Miela di Trieste, oramai covo di satiemaniaci dal 1992, le tre giornate della rassegna SatieRose 2021, curata da Eleonora Cedaro, titola proprio Jeu de Vivre puntando sulla doppia accezione gioco/gioia. Il gioco come sorpresa, attesa, invenzione. Tutte sensazioni vissute ampiamente nella giornata conclusiva con la proposizione dell’opera La pazienza del Violoncello. Ma prima di entrare nel merito di questa opera che chiuderà quasi allo scoccare della mezzanotte del 16 maggio la rassegna di quest’anno è importante sottolineare i contenuti stimolanti del seminario pomeridiano Musica aleatoria e gioco della performance che vede coinvolti il compositore Carlo de Incontrera, il filosofo Riccardo Martinelli, i musicisti Anna D’Errico e Francesco Dillon, tutti introdotti dal musicologo Veniero Rizzardi. Senza dimenticare lo splendido concerto per violoncello solo di Francesco Dillon, alle 19 con il pubblico in sala (!).
Il musicista torinese presenta un programma di notevole interesse con il quale, parafrasando una possibile connessione con Satie nel binomio gioia di vivere/gioco di vivere, ci presenta compositori d’oggi e poetiche diverse. Lo fa con la riconosciuta maestria interpretativa, la capacità non comune di riuscire ad entrare ed uscire in un lasso di tempo breve da mondi sonori lontani e contrastanti mantenendo una tensione emotiva, un gesto di grande coinvolgimento molto apprezzato dal pubblico.
La prima composizione è Lied (2020) di Francesco Filidei nata per violino ma poi regalata al violoncello dell’amico. Una prima assoluta di impatto emotivo forte. Scritta durante la pandemia è una riflessione cupa, un controverso movimento su un accordo, le corde strusciate, grattate. Un labirinto che ha un colore unico, sempre quello. Come un’ombra misteriosa la necessità impellente di uscire dall’oppressione dell’isolamento si muove sinuosa, deforma i confini dello spazio sonoro.
Lo scenario muta radicalmente con Six figures (2005) di Howard Skempton. Sei miniature brevi, leggere, dai sapori vagamente popolari, impasti barocchi, melodie danzanti con il pizzicato. La gioia di vivere pare poi debordare da Curve with plateaux (1982) di Jonathan Harvey. Un lavoro che sfrutta la potenza espressivo coloristica delle corde, attraverso un prorompente intelaiatura ritmica, movimenti struggenti, evidenti riferimenti all’oriente come filosofia della vita.
Altrettanto vitale Fits and stars (2003) di Anna Clyne. Opera nata per la danza si dimostra, pur nei suoi colori smaglianti, un po' fragile nell’interazione meccanica con una base preregistrata che fa da sottofondo mosso. Il violoncello dialoga con la base ma solo saltuariamente, come nello struggente passaggio centrale, si crea una tensione coinvolgente che non vada oltre una semplicistica adesione/contrasto sonoro. Più convincente il breve Dit-Monade/Nomade 1 (1999) di Walter Zimmermann dove un canto popolare della Papua Nuova Guinea si incastra tra le corde sviluppando un piacevole flusso danzante. Qui la ricerca è profonda, voce e suono si esaltano in uno interscambio che trasfigura in una poetica magica, sospesa ed evocativa. Oog (1995) di Michel Van der Aa esplicita un rapporto più coinvolgente con l’elettronica che entra con forza nel dialogo a due.
Pulviscolo freddo, segmenti astratti e martellanti paiono costringere lo strumento a riflettere, a giocare su un piano introspettivo. Nell’ultima proposta di Dillon tornano le voci che ci portano ad Haiti, paese di origine di Nathalie Joachim con Dam mwen Yo (2019). Qui si allontanano i rischi di esotismi turistici in un intreccio fascinoso dove il violoncello vola sopra le voci femminili ma senza allontanarsene, anzi facendo corpo vitale con esse, in uno stravolgente e commovente caos di ritmi e memorie. E visto che il pubblico non smette di applaudire Dillon regala un bis che, come spesso succede con i bis, è tra le cose più belle dell’intero concerto. Rebellion dell’australiana Kate Moore è un breve capolavoro, viaggio intenso dove si accavallano senza soluzione di continuità tante linee, schegge impazzite che disegnano una trama, una tensione così forte che quando l’archetto si ferma piombiamo nel silenzio, soli.
Ma per Dillon le fatiche non sono finite. C’è tempo per rilassarsi, fare uno spuntino mentre fuori diluvia. Poi alle 23:45, con il teatro vuoto per il coprifuoco inizia la diretta streaming su La pazienza del Violoncello di Carlo de Incontrera, su carte di Miela Reina (1970). Opera singolare realizzata da due artisti che hanno collaborato insieme condividendo con passione, visioni e sguardi sull’arte di domani fin dagli anni Sessanta. Percorso purtroppo interrotto nel 1972 a causa della prematura scomparsa dell’artista alla quale è dedicato il teatro triestino.
La pazienza del Violoncello è un’opera che si fonda sul criterio compositivo aleatorio, prevedendo elementi di indeterminatezza o causalità. Questi stanno nella partitura di de Incontrera suddivisa in un mazzo di carte da solitario disegnate dalla Reina. Oltre alle carte con la partitura ci sono carte speciali che modificano l’approccio strumentale. Dillon sul palco è di fronte a un tavolo e fa la sua partita solitaria. Una volta definito l’ordine delle carte sul tavolo la partitura, quella partitura, è pronta. Al di là del gesto, della ritualità della partita solitaria la musica scorre poi tra momenti intensi, suoni distorti, uso percussivo della struttura, impiego stralunato della voce, molti spazi di silenzio. Un puzzle astratto che devi ricomporre. Tutto ha il suo culmine con la festa, a mezzanotte quando la curatrice Eleonora Cedaro sale sul palco con la torta di compleanno con candelina (che ne rappresenta 155) e la spegne.
Buon compleanno Satie!
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