Il cuore spezzato di Aix tra lutti, ospedali e mitologie domestiche
Dedicata a Pierre Audi, recentemente scomparso, l’edizione 2025 del Festival di Aix-en-Provence

È naturalmente dedicata alla memoria Pierra Audi l’edizione numero 77 del Festival d’Aix-en-Provence, il direttore generale che ci ha “brutalmente lasciato” lo scorso 3 maggio. A lui è dedicato il primo dei “tête à tête” in apertura di festival con il suo storico “Dramaturg” Klaus Bertisch, il light designer Matthew Richardson, assiduo collaboratore di Audi (fra l’altro dell’Alcina vista di recente a Roma) e il “Dramaturg” del festival Timothée Picard. Una scomparsa arrivata come un vero fulmine a ciel sereno mentre la preparazione del festival stava entrando nel pieno. Tutto comunque ha funzionato senza intoppi nella collaudatissima macchina di Aix. Sarà certamente un caso, ma mai come in questa edizione si erano visti tanti ospedali nelle produzioni del ricco cartellone festivaliero.
Don Giovanni soffre di cuore
Su un letto d’ospedale costretto da un infarto che lo coglie mentre ascolta da un vecchio 33 giri il finale dell’opera, si trova il protagonista dell’opera inaugurale, Don Giovanni, andata in scena al Grand Théâtre de Provence. Se questo Don Giovanni ha problemi di cuore ma qui ci vuole un cardiologo per risolverli. È l’inizio di un racconto scenico che insiste molto (e in maniera inedita) sull’identificazione Commendatore-Don Giovanni e che presenta le vicende dell’ultima giornata terrena dell’ingannatore di Siviglia come si trattasse della vita che rivive nella mente del morente. Si sprecano i segnali di un’equazione che regge fino a un certo punto ma non è mai banale nella cupissima versione scenica firmata da Robert Icke, giovane e brillante regista e drammaturgo britannico dalla fama di innovatore, al debutto nella regia lirica. Molto essenziale la scenografia firmata da Hildegard Bechtler che allude, come le proiezioni (molto spesso live) curate da Tal Yarden, a uno spazio mentale privo di coordinate spazio-temporali: due passerelle metalliche sui lati e una struttura a due piani, che nella parte superiore, parzialmente nascosta da sipari bianchi, presenta gli ambienti di alcune delle tappe esistenziali di Don Giovanni fra una memoria ben poco gioiosa e lo squallore del presente. Al Don Giovanni delle imprese amorose, vestito dalla costumista Annemarie Woods con una semplice tuta da ginnastica bianca (mentre agli altri sono riservati abiti contemporanei dalle tinte rigorosamente fredde), è riservato lo spazio in basso, dove anche si consumerà lo scontro finale che qui è quello con la morte, rappresentata come una bambina che disegna cuori lungo tutta l’opera e nel momento finale lascia volare in cielo un palloncino a forma di cuore, appunto. Se domina il nero in questo interessante debutto, c’è comunque una fiammella di speranza: nel finale Elvira non si unisce alla facile morale dei sopravvissuti e si accosta invece al capezzale del defunto, coprendone il volto con il lenzuolo.
Di lentezza funerea, dunque coerente con il disegno scenico, il passo impresso dalla direzione di Simon Rattle, che nella seconda parte diventa tuttavia più morbido e all’insegna di una cantabilità più pronunciata prima del cupissimo sottofinale e del sestetto finale, che qui suona tutt’altro che gioioso. Più che per le punte di eccellenza la compagnia di canto si distingue per l’omogeneità e l’aderenza al particolare progetto registico. Fra i punti di forza ci sono sicuramente il protagonista André Schuen, un Don Giovanni antieroico e di nevrotica modernità, e Magdalena Kožená, che incarna una trepidante e umanissima Donna Elvira. Krzysztof Bączyk è un Leporello che la regia vuole impersonato con un distacco quasi brechtiano per sottolinearne la distanza dal padrone ma che inevitabilmente snatura anche la sostanza vocale. Golda Schultz e Amitai Pati, Donna Anna e Don Ottavio, si dimostrano soprattutto eccellenti cantanti ma sembrano piuttosto estranei al disegno scenico, mentre poco incisivi risultano Paweł Horodyski come Masetto e soprattutto Madison Nonoa come Zerlina. Completa il cast Clive Bayley, un Commendatore soprattutto di ottima qualità attoriale.
Uno psichiatra per Louise
Se Don Giovanni soffre di cuore, nemmeno Louise sta troppo bene. La immagina creatura disturbata Christof Loy, che però non sembrerebbe affatto tale a giudicare dalle sue parole nell’atto finale dell’esile “romanzo in musica” in quattro atti di Gustave Charpentier, per la prima volta al festival sul palcoscenico all’aperto del Théâtre de l’Archeveché, complice il Palazzetto Bru Zane. Nella sua rivolta finale contro la tirannia affettiva di una coppia di genitori fra i più possessivi della storia dell’opera, Louise “non è più la bambina dal cuore timido e timoroso” ma “una donna dal cuore ardente che vuole riprendersi il suo amante!” come dice lei stessa. È l’amore per lo spiantato poeta tiratardi Julien, che da subito le fa una corte sfrenata, che la strappa da un destino già segnato e trasforma quella semplice sartina, che in una Parigi festosissima viene anche incoronata regina di Montmartre, in una donna capace di amare. A poco vale l’estremo ricatto del padre, la cui malattia, dice la madre, solo la figlia può guarire: Louise cede per un attimo ma poi li abbandona, mentre il padre maledice Parigi, che ha mutato irrimediabilmente la sua bambina dal cuore timoroso in una donna dal cuore ardente. Ma tutto questo conta poco, perché Loy immagina la sua protagonista come fanciulla minata irrimediabilmente nella psiche da quell’amore tossico. Di lieto fine nemmeno a parlarne: una famiglia così non può che produrre danni permanenti, secondo Loy. E così sia.
È stato detto che Parigi sia la vera protagonista del lavoro di Charpentier, tenuto a battesimo nei primi giorni del Novecento, anche se non si direbbe proprio ascoltando una musica che sembra quella di un Massenet in minore ed è lontanissima dalla freschezza poetica del Puccini di Bohème anche se i cieli bigi sono gli stessi. Parigi, in effetti, viene citata ben 51 volte nel libretto dello stesso Charpentier ma non la si vede nella scena di Etienne Pluss tranne in qualche cupa immagine oltre le grandi finestre della sala d’attesa di un ospedale, che potrebbe essere quello della Salpêtrière, l’antico manicomio divenuto con Jean-Martin Charcot centro di eccellenza per la cura di nevrosi causate in giovani menti da famiglie morbosamente possessive. Pazienza se tutto lo spettacolo si svolge in quella sala, compresi i momenti festosi: tutto ciò che si vede non è che il frutto della sua psiche ferita così come l’adorato Julien non è che il medico che l’ha in cura e sul quale Louise proietta l’ombra del padre. Se la lettura psicoanalitica si spinge fin troppo oltre la fragile sostanza di questo pallido prodotto frutto di un timido naturalismo intimista con più di un eccesso di intellettualismo, le parentesi spettacolari non mancano (anche se costrette fra le mura di un manicomio) e lo spettacolo è accattivante nonostante qualche eccessiva contorsione drammaturgica confonda la linearità della trama.
Sul piano musicale, si fa apprezzare soprattutto l’appassionata direzione di Giacomo Sagripanti, fra l’altro fresco di Chevalier des Arts et des Lettres da parte della Ministra della Culture francese, che fa scorrere un po’ di sangue nel corpo piuttosto freddo in questo spettacolo eccessivamente cerebrale. Dal canto loro i complessi dell’Opéra de Lyon aggiungono sostanza con un suono vigoroso e duttile l’orchestra e interventi precisi e ben calibrati del coro. Un po’ sbilanciato invece il cast vocale, che ha in Elsa Dreisig una pallida protagonista (tanto quanto il suo esile “Depuis le jour”, il pezzo forte di tutta l’opera) e in Adam Smith uno Julien poco controllato sul piano vocale e nemmeno particolarmente seducente. Non brilla nemmeno la coppia dei genitori di Louise che sono una Sophie Koch, la cui emissione appare poco centrata, e un fin troppo sanguigno Nicolas Courjal. Convince invece la lunga lista di comprimari, fra i quali si fanno notare il piccolo cameo di Annick Massis nel minuscolo ruolo della spazzatrice e la fresca Karolina Bengtsson come Camille.
Le relazioni pericolose di Calisto

Non in un ospedale ma in una camera ardente si apre invece La Calisto presentata anche sul palcoscenico dell’Archevêché in alternanza con Louise. Nel Prologo, il dialogo fra Natura, Destino ed Eternità diventa una veglia funebre sulla bara di una salma invisibile, la cui identità verrà rivelata solo nel colpo di scena finale. Prologo a parte, lo spettacolo di JM risulta essere piuttosto giocoso come può esserlo una sorta di gioco di corte che inevitabilmente finisce per essere crudele. Gli dei, peraltro molto umani di Giovanni Faustini, lasciano l’Olimpo per abitare le stanze di una aristocratica residenza tutta boiserie e candele del XVIII secolo (la scena a impianto fisso con un solo elemento girevole al centro è di Julia Katharina Berndt). Vestiti di elegantissimi costumi XVIII secolo di Hannah Clark, i personaggi sembrano quelli usciti dalla penna di Marivaux o di Beaumarchais o magari da quella più avvelenata di Laclos. Calisto, come l’ingenua Cécile de Volanges, cade nella trappola di Giove-Valmont, come lui seduttore seriale, che non esita a travestirsi in abiti femminili per vincere le sue resistenze. Lei cede e il gioco continua finché non entra in campo la consorte Giunone che rompe il velo dell’inganno smascherando il fedifrago marito ma soprattutto le illusioni amorose di Calisto. “Mogli mie sconsolate, noi sempre siam l'offese, e abbiamo il torto… Sarà il giogo soave quando sapremo oprare audaci e scaltre, ch'il nostro dolce non trapassi ad altre”, conclude amaramente Giunone, quasi anticipando le pene della Contessa di Beaumarchais, prima di vendicarsi sulla vittima dell’inganno del marito. Con una torsione femministica, però, Calisto non ascende affatto al cielo in forma di costellazione, come vorrebbe il mito, ma pugnala a morte il suo seduttore, chiudendo così il circolo.
Nonostante le licenze drammaturgiche, il gioco scenico concepito dalla regista Jetske Mijnssen è condotto con grande coerenza e fin troppa eleganza, anche se si avverte la mancanza di quei contrasti di umori e sapori che rendono appassionanti e spassosi gli infallibili meccanismi delle opere di Cavalli.
Altrettanto raffinata e levigata la direzione musicale di Sébastien Daucé alla guida dell’Ensemble Correspondances ampliato a 33 elementi con intelligenza rispetto ai sei previsti da Cavalli per adattarlo all’ambiente esterno senza appesantire il suono. La ricostruzione musicale, con aggiunte ben calibrate tratte dal catalogo di Cavalli o da contemporanei per assicurare continuità stilistica, ha arricchito la trama sonora in favore di uno spessore drammaturgico più compiuto. Cast vocale ben assortito fatto in gran parte di giovani interpreti, tutti ben calati nei rispettivi ruoli. Primeggia il Giove di Alex Rosen grazie alla grande disinvoltura in scena che mette un po’ in ombra la più remissiva Lauranne Oliva che comunque regala momenti di grazia con il suo delicato ritratto di Calisto. Per le due dee si ritrovano due cantanti di forte carattere come Giuseppina Bridelli come Diana e Anna Bonitatibus come Giunone (ed Eternità nel prologo).
La cerva che porta in Oriente
Non parla di morte invece l’unica novità vista al festival, nata dalla collaborazione ormai consolidata con la Fondazione LUMA di Arles, dove questa creazione ha visto la luce solo pochi giorni prima di approdare al Théâtre de Jeu de Paumes. The Nine Jewelled Deer (La cerva dai nove gioielli) è esemplare della fase più recente di Peter Sellars, marcatamente minimalista e improntata a una multiculturalità che è quasi una ricerca sulla matrice comune di culture all’apparenza lontane. Nasce dalla suggestione di una antichissima pittura rupestre in Cina che raffigura un uomo, sul punto di affogare, salvato da una cerva magica la cui esistenza non deve essere rivelata. Si sviluppa attraverso una cucina nell’India contemporanea, dove una anziana donna accoglie e cura con il canto chi è stato vittima di disgrazie, e nel giardino di un’ex prostituta dove un monaco insegna i segreti dell’illuminazione. Più maieuta che regista, Sellars tenta un’alchimia complessa fra la musica occidentale contemporanea di Sivan Eldar, davvero poco personale in questo lavoro, e il canto della tradizione carnatica di Ganavya Doraiswamy, che firma anche il testo aperto a suggestioni poetiche ma drammaturgicamente frastagliato e con frequenti sollecitazioni al pubblico a unirsi con gli artisti in preghiere e canti, e Aruna Sairam, la cui voce evoca suggestivi paesaggi lontani. All’insegna di un minimalismo di movimenti, di segni visivi – limitati a qualche fondale dalle geometrie astratte in stile batik dell’artista etiope Julie Mehretu – ma anche di segni musicali affidati a brevi interventi per lo più solistici del violino di Nurit Stark, del violoncello di Sonia Wieder-Atherton, del clarinetto di Dana Barak, del sax di Hayden Chisholm e del mridangam di Rajna Swaminathan. Sfuggente e indefinibile ma non priva di suggestioni, questa produzione celebra soprattutto la volontà di un incontro fra tradizioni lontane ma che trova il momento musicalmente più intenso nello scambio cantato fra l’anziana Aruna Sairam e la giovane Ganavya Doraiswamy come affermazione di un legame fra generazioni che continua una tradizione millenaria.
Si chiude così un’edizione caratterizzata come sempre da una programmazione varia ma con esiti alterni, fra punte di eccellenza e proposte più deboli rispetto a edizioni più brillanti del passato recente. Se la qualità resta comunque alta e il gradimento del pubblico sempre elevato, si dovrà necessariamente voltare pagina ridando magari un nuovo slancio a uno dei festival più stimolanti e vitali del panorama europeo.
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