Dal Settecento ritorna Il re pastore
Un’ottima realizzazione dell’opera giovanile di Mozart all’Opera di Roma

Mozart compose Il re pastore a diciannove anni, nel 1775, dunque si potrebbe pensare che fosse ai suoi primi passi nell’opera, invece aveva alle spalle già sette titoli tra opere vere e proprie e altri lavori teatrali, tra cui Mitridate e Lucio Silla, composte rispettivamente a quattordici e sedici anni e ben più impegnative, poiché erano opere serie scritte per il Teatro Regio Ducale di Milano, mentre Il re pastore era quella che si definiva una serenata, cioè un’opera più breve, con scene ridotte al minimo e talvolta senza scene, da rappresentarsi una e una sola volta nel teatro di qualche aristocratico in occasione di eventi privati: in questo caso nel teatro della residenza del principe-arcivescovo di Salisburgo per festeggiare l’arrivo dell’arciduca Massimiliano d’Asburgo.
Per farne una serenata, il libretto di Metastasio, originariamente un “dramma per musica” in tre atti, fu ridotto a due atti. Leggendo quei versi se ne ammira l’eleganza e la fluidità ma si resta sconfortati dall’esilità della vicenda, che poteva forse essere vicina alla sensibilità di quel tempo ma è lontanissima dalla nostra. E qui entra in campo Mozart, che riesce a rendere vivi i protagonisti e vi scopre sentimenti e affetti delicati ma palpitanti. E quando il libretto non offre altri appigli, scrive comunque musica splendida. Ma bisogna resistere alla tentazione di confrontare questa serenata del diciannovenne Mozart con le sue ultime opere.
Già la breve ouverture è folgorante: impetuosa, tempestosa, molto Sturm und Drang, perfino troppo per la scena pastorale che segue, ma Mozart inventa una bellissima transizione in cui emerge il timbro degli oboi e dei corni, allora collegati ad atmosfere bucoliche. In seguito ci sono momenti in cui già si intravede il Mozart futuro, come la prima aria di Tamiri “Di tante sue procelle”, che può ricordare la Regina della Notte, non per la parte vocale, qui molto meno vertiginosa, ma per gli interventi dell’orchestra. Invece la dolce Elisa nella sua aria del secondo atto “Barbaro, oh Dio” tira fuori un temperamento e un’energia insoliti a quell’epoca per un personaggio femminile, che anticipano la Donna Anna del Don Giovanni. Nell’aria “L’amerò, sarò costante” di Aminta non ci sono soltanto vaghe somiglianze, ma precisi riferimenti a “Porgi amor qualche ristoro”: la medesima tonalità è già un indizio ma l’evidenza è offerta dall’introduzione orchestrale e dalla melodia del soprano, che tornano molto simili nell’aria della Contessa nelle Nozza di Figaro. Evidentemente Mozart era convinto del valore quest’aria della sua dimenticata opera giovanile e ne riprese alcuni elementi. Ma anche i momenti più legati al tramontato gusto per le pastorellerie sono incantevoli, come le prime arie, una di Aminta (è lui il re pastore), una della sua amata Elisa e un’altra di Aminta, trepidanti di tenero amore e di serena felicità.
Scoprire un’opera di Mozart semisconosciuta è un’occasione da non perdere. Il Teatro dell’Opera l’ha portata sul suo palcoscenico secondario, il Teatro Nazionale, che senza dubbio è più adatto per dimensioni ed acustica. Manlio Benzi è stato molto attento alla scelta di tempi naturali ed equilibrati e al dosaggio dei volumi all’interno dell’orchestra e tra le voci e l’orchestra, sensibile alle delicate e perfino tenui espressive. Ma si potevano desiderare maggiori varietà e incisività. Sembrerebbe semplice ma la musica “semplice” è estremamente delicata ed esigente. L’orchestra - composta quasi interamente da giovani con un contratto temporaneo, perché l’orchestra del teatro era impegnata in altre opere e concerti - ha seguito la sua bacchetta con precisione, leggerezza e bel suono.
Ideale anche la compagnia di canto, composta da tre soprani e due tenori. In realtà il protagonista Aminta era qui interpretato dal mezzosoprano, Miriam Albano, che non ha avuto nessuna difficoltà con la tessitura e in più con la sua voce leggermente più scura e più calda di quella di un soprano era in perfetta consonanza col carattere schivo e riservato di questo pastorello che si scopre re. Quando ha cantato “L’amerò, sarò costante” si è verificato uno di quei rari momenti magici, in cui in sala cala un silenzio assoluto e sembra di avvertire che il fascino magnetico della musica avvinca e unisca tutti gli spettatori. Prima che si alzasse il sipario è stato annunciato che Francesca Pia Vitale avrebbe cantato sebbene fosse indisposta: forse a questo va attribuita qualche rara nota appena meno pura delle altre. Ciò nonostante ha cantato Elisa, l’amata di Aminta, con voce limpidissima e perfettamente controllata, con agilità facili e scorrevoli e soprattutto ne ha dato un’interpretazione di squisita e raffinata sensibilità. Benedetta Torre ha una voce, una tecnica e una personalità che le permettono di spaziare dai personaggi comici di Cimarosa a quelli drammatici verdiani: sicuramente questo le è stato utile per dare un bel rilievo Tamiri, un personaggio a due facce, ma le sue agilità erano poco fluenti. Il deus ex machina della vicenda è Alessandro Magno, la cui parte è irta di difficoltà per l’estensione all’acuto e per le fitte colorature: sicuramente Juan Francisco Gatell è uno dei pochi capaci di uscirne gloriosamente. L’altro tenore era Agenore, un personaggio che ha molti recitativi (a proposito, i recitativi suoi e degli altri personaggi sono qui molto drammatici, spesso accompagnati dall’orchestra e non dal solo bassi continuo) e una sola aria, ma è molto presente nei momenti cruciali: ottimamente interpretato da Krystian Adam.
Fortunatamente la regista Cecilia Lagorio non ha pensato di dare una lettura moderna del Re pastore, che inevitabilmente si sarebbe risolta uno stravolgimento di un’opera legata a un gusto e ad una mentalità settecentesche e l’avrebbe ridotta a un misero compromesso, in cui né il Settecento né il Duemila si sarebbero riconosciuti. Tranne la presenza ingombrante e superflua di un gruppo di figuranti in alcune scene, era una regia semplice ma vivace, in grado di avvinarci a questo mondo settecentesco, da cui una modernizzazione forzata e cervellotica ci avrebbe inesorabilmente allontanato. Ottenere un simile risultato potrebbe sembrare semplice ma non lo è affatto. I costumi di Vera Pierantoni Giuia evitavano ingombranti pepli antichi, ma risalivano comunque indietro fino all’epoca dei nostri avi ovvero agli anni intorno al 1900. Le scene semplici e “leggere” di Gregorio Zurla raffiguravano una deliziosa collinetta coperta da un verde tappeto erboso e sormontata da un grande albero, che, quando Aminta viene riconosciuto come erede al trono e deve quindi abbandonare la campagna per la reggia, viene smontata a sipario aperto e sostituita da una sala regia, che a sua volta, quando Aminta rinuncerà al trono per tornare alla sua campagna e ad Elisa, scomparirà, mentre ricomparirà il paesaggio bucolico dell’inizio.
La sala era completamente piena e il successo alla fine è stato calorosissimo, che va equamente ripartito tra Mozart e i suoi interpreti.
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