Ad Amsterdam la “Donna” di Strauss è femminista
Un successo per la nuova produzione “Die Frau ohne Schatten” firmata dalla regista Katie Mitchell con la superba direzione musicale di Marc Albrecht

Un thriller fantascientifico femminista: è la definizione che la regista Katie Mitchell dà dell’opera Die Frau ohne Schatten (La donna senz’ombra) allestita ad Amsterdam. Indubbiamente l’accoppiata era esplosiva sulla carta, soprattutto se preceduta da dichiarazioni pochissimo accondiscendenti della regista britannica sul lavoro di Strauss e Hofmannsthal. Un esempio: “La misoginia è presente in vari aspetti dell'opera. Per esempio, il libretto attribuisce la colpa della mancanza di figli interamente alla partner femminile, senza alcuna base scientifica. Inoltre, c'è un elemento di abilismo nel modo in cui vengono rappresentati i tre fratelli di Barak.”
Nessuna sorpresa, dunque, nell’assistere a una spoliazione quasi totale della componente favolistica, ben presente nell’opera, alla quale si deve gran parte del fascino oscuro di questo lavoro, al di là dal suo messaggio secondo cui le donne sarebbero tali solo se capaci di diventare madri, oggi difendibile solo da posizioni fieramente antiprogressiste. Ambienti simmetrici – creati dalla scenografa e costumista Naomi Dawson e magicamente illuminati da Rob Casey – per il mondo “di sopra” dell’Imperatrice e consorte – una grande stanza da letto a destra con un’anticamera e bagno sulla sinistra con l’eleganza di un design minimale – e quello “di sotto” di Barak e consorte – camera da letto con alberello di Natale sulla sinistra e cucina a destra con vetrata aperta sul laboratorio di Barak e fratelli, probabilmente produttori di droghe sintetiche (che Barak assume con l’Imperatrice alla fine del secondo atto).
Eppure, nonostante l’aggiornamento contemporaneo, l’elemento magico entra in scena con Keikobad, inquietante nei suoi abiti neri e il capo coperto da una testa di antilope, e il suo mondo sotterraneo fatto di spietati killer alla Tarantino con teste di lupo, il messaggero con la testa di corvo e naturalmente il falco. Presenze tanto più inquietanti quanto appartenenti a una realtà estranea alla quotidianità degli ambienti degli umani. L’ombra viene continuamente tradotta “fuor di metafora” tramite il ricorso quasi ossessivo alle ecografie imposte all’imperatrice e alla moglie di Barak e dall’esibizione delle immagini dei loro uteri. L’osceno baratto proposto dalla nutrice all’infelice moglie di Barak – l’ombra (ossia la maternità) in cambio di ricchezze – viene mostrato in tutta la sua violenza brutale tramite diversi e faticosi tentativi di rapporti sessuali fra la donna e un uomo sotto minaccia armata degli scagnozzi di Keikobad. La scena cambia nel terzo atto, il più enigmatico e per molti versi oscuro: siamo in una specie di prigione o luogo di torture. È lì che l’imperatrice, nonostante le oscure minacce fa la sua scelta e salva il suo uomo, intubato e costretto su un letto d’ospedale (traduzione in immagini dell’essere diventato di pietra perché la sua donna ancora non proietta l’ombra). Da autentica guastafeste woke, la Mitchell naturalmente freddamente demolisce il trionfale lieto fine, immaginato da Strauss e Hofmannsthal come coronamento della conquistata maternità delle due donne, con un bagno di sangue a freddo: come in un regolamento di conti fra bande del cartello della droga, gli scagnozzi di Keikobad sparano ai tre fratelli di Barak e quindi alla nutrice, che per un momento crede di essere stata riabilitata dall’imperatrice. La coppia imperiale ha ritrovato l’armonia, complice il padre-padrino Keikobad, mentre Barak e la moglie sono evidentemente destinati ancora all’infelicità del mondo di sotto.
Se questa lettura radicale e per molti versi estrema inevitabilmente si presta a reazioni divergenti e sorvolando sulle molte domande alle quali questo spettacolo non dà risposte (ma non sono certo più che nell’originale), non si può non essere d’accordo sull’impressionante lavoro di regia che ancora una volta Mitchell mette in campo: ogni dettaglio è curatissimo, come maniacalmente precisa è la prestazione scenica sollecitata a ogni interprete in questo spettacolo che è avvincente come un film di cui si vuole sapere come va a finire.
Se la lettura scenica è potenzialmente divisiva, non è invece così per l’assoluta qualità dell’esecuzione musicale guidata da Marc Albrecht, che torna a dirigere la Netherlands Philharmonic Orchestra in stato di grazia nel teatro dove fino al 2020 ha servito come direttore musicale con il suo compositore (e titolo) d’elezione. Difficile immaginare una direzione più chiara ed elegante e un equilibrio più riuscito fra piani sonori che rende vibranti i passaggi più lirici quanto la scultorea potenza della massa orchestrale. Se un difetto si può trovare è nella scelta di aver portato la buca all’altezza della platea: ne guadagna l’occhio (l’oceanica orchestra straussiana è di per sé uno spettacolo in quest’opera) ma ne soffrono non poco le voci, malgrado l’attenzione posta dal direttore d’orchestra. Soffrono soprattutto le voci delle tre protagoniste femminili, cioè Daniela Köhler, un’imperatrice un po’ appannata nel primo atto ma finalmente presenza autorevole anche vocalmente nell’atto finale, Michaela Schüster, che ancora una volta veste i panni della nutrice (ormai ne conosce ogni segreto) con consumata arte scenica appena sufficiente a mascherare più di un segno di usura vocale, e Elena Pankratova, che dal lato del palcoscenico presta la propria robusta voce alla titolare Aušrinė Stundytė, vocalmente indisposta ma presente in scena, mostrando qualche segno di stanchezza solo nel finale. Nel comparto maschile, Josef Wagner come Barak si impone come l’interprete migliore e più completo sia sul versante vocale che di quello attorale, ma anche AJ Glueckert, non davvero un talento come attore, regala all’imperatore un bel colore lirico. Anche il resto del nutrito cast assolve bene l’impegno, come i tre fratelli di Barak, Michael Wilmering, Joe Chalmers e Robert Lewis, e il falco di Aitana Sanz. Efficaci anche gli interventi del Coro dell’Opera Nazionale Olandese, tutti rigorosamente fuori scena, e delle giovani voci del Nieuw Amsterdams Kinderkoor.
Teatro gremito per questa nuova produzione di successo dell’Opera Nazionale Olandese, salutata alla fine dai calorosi applausi del pubblico tutto in piedi (ma ormai è una consuetudine da quelle parti).
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