Ariadne e l’eterno gioco del teatro
Al Teatro La Fenice successo per Ariadne auf Naxos di Strauss e Hofmannstahl nell’allestimento di Paul Curran già presentato a Bologna e Trieste ma con un nuovo cast musicale
Non serve fare molto per far funzionare il perfetto meccanismo metateatrale congegnato dalla coppia Strauss e von Hofmannstal per la loro Ariadne auf Naxos presentata con successo al Teatro La Fenice nella produzione già vista al Comunale di Bologna un paio di stagioni fa e al Verdi di Trieste nello scorso febbraio. È la regola seguita dal regista Paul Curran che, con la complicità dello scenografo e immaginoso costumista Gary McCann, si limita ad aggiornare la vicenda al tempo degli smartphone e dei selfie con una buona dose di ironia leggera ma resta sostanzialmente fedele al testo originale.
La scena unica è un grande salone di una sontuosa residenza, messo a disposizione da un non meglio specificato “gran signore” per un doppio spettacolo – un’opera seria su Arianna abbandonata e uno spettacolino di intrattenimento fatto da comici dell’arte – che dovrà terminare tassativamente prima che si sparino i fuochi d’artificio nel giardino (intrattenimento ben più interessante, si capisce). Curran si beffa con mano leggera degli eterni cliché del settecentesco teatro alla moda.
Nel viavai di bauli nel salone, fra camerini volanti e tecnici al lavoro, si consuma la tragedia in miniatura del compositore frustrato nel suo slancio d’artista e umiliato dalla volgare indifferenza del committente ma presto consolato dalle lusinghe della frizzante soubrette in soprabito argento lamé. Poi, dopo la pausa, nel salone le quinte barocche di cartapesta, con satiri e vittorie alate di gusto déco in un capriccio di rovine classiche, accolgono la tragedia di Arianna su un’elegante chaise longue. Arianna piange l’abbandono del suo Teseo vegliata dalle tre ninfe, che provano a lenirne il dolore. L’enfasi esageratamente tragica della primadonna viene sgonfiata dall’ingresso delle maschere danzanti in abiti di diverse sfumature di rosa che, come i boys di uno spettacolo di rivista dei tempi andati, fanno ala all’ingresso della divetta, un’ammiccante Marilyn in gonna di tulle. Zerbinetta, che la sa lunga sugli uomini/dei e sulle debolezze femminili, fa lezione di cinismo femminino all’indignata tragédienne, che, ironia del destino (o piuttosto di Strauss&von Hofmannstahl), capitola davanti al primo dio (o semidio) che le si fa avanti. Lei non sa nemmeno chi sia davvero, come lui non sa chi sia lei, ma l’amore, che magari è solo la voglia di lasciare l’isola deserta, vince. Fin troppo facile cadere nella trappola e farsi ingannare dall’enfasi del finale del mito riletto con la lente divergente del Novecento da Strauss e dal suo librettista d’elezione. Curran mette da parte il sorriso e inventa un finalone quasi wagneriano, con la neocoppia (semi)divina che muove verso un metafisico spazio di luce palesato dal sollevarsi delle pareti del salone.
Rispetto a Bologna e Trieste, a Venezia è del tutto rinnovata o quasi la locandina, nella quale spicca la formidabile Zerbinetta di Erin Morley, impeccabile nelle acrobazie vocali della “Großmächtige Prinzessin” sciorinate con grande leggerezza e spirito. Non meno riuscita la prova come Ariadne di Sara Jakubiak, interprete di grande temperamento, ormai avviata a una luminosa carriera di soprano drammatico, ma anche quella di John Matthew Myers, un Bacco dalla fibra vocale robusta ma fraseggio morbido. Meno riuscita invece la prova di Sophie Harmsen come Compositore, in palese difficoltà nel registro acuto e poco a fuoco nel disegno del personaggio protagonista del Prologo, che invece si fa rubare la scena dal Maestro di musica di Markus Werba per disinvoltura scenica e sicurezza vocale. Accanto a loro, si difendono molto bene lo spiritoso trio femminile delle ninfe consolatrici, che sono Jasmin Delfs (Najade), Marie Seidler (Dryade) e Giulia Bolcato (Echo), ma non meno riuscita è la prestazione del quartetto dei comici dell’arte, cioè Äneas Humm (Harlekin), Mathias Frey (Scaramuccio), Szymon Chojnacki (Truffaldin) e Enrico Casari (Brighella).
Di grande valore e autorevolezza è la direzione musicale di Markus Stenz, che conferma la sua sintonia con l’eclettica scrittura di Richard Strauss e di questo lavoro in particolare, tutta proiettata nella modernità neoclassica novecentesca. La sia lettura si impone specialmente per la mancanza di enfasi retorica e l’intima essenza teatrale. Sotto la sua guida sicura gli strumentisti dell’Orchestra del Teatro La Fenice offrono una prova di grande valore e in piena sintonia con il mondo sonoro del compositore bavarese. Da auspicare che direttore e orchestra si ritrovino presto in altri titoli del compositore bavarese, sempre colpevolmente troppo assente nei nostri teatri.
Qualche vuoto in sala nella penultima delle cinque repliche del cartellone ma applausi generosi per tutti.
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