Mefistofele o della consolazione della musica
Al Teatro La Fenice grande successo per l’opera di Arrigo Boito nel brillante allestimento di Moshe Leiser e Patrice Caurier con la solida direzione musicale di Nicola Luisotti
Si apre in una scena completamente vuota con solo una poltrona e il demonio in “abiti di lavoro”, per così dire: una maschera con piccole corna rosse e tuta grigia sportiva. Una doccia, un’occhiata a CattoTV con le immagini di un papa languente che presiede un qualche rito salvifico, e poi di nuovo in pista per cercare una nuova preda mentre cori di falangi celesti, cherubini, penitenti e quant’altro offrono le “aure azzurre e cave”, intonano le lodi al Signore. Nel nuovo allestimento del Mefistofele di Boito firmato da Moshe Leiser e Patrice Caurier per il Teatro La Fenice gli spiriti non sono che delle pure voci che risuonano nell’oscurità di una scena di teatro vuota. Il diavolo, al contrario, c’è eccome e si mostra subito in tutta la sua corporeità e nel suo multiforme catalogo di nequizie (pedofilia compresa) alle schiere di umani pronti a cedere senza grandi resistenze alle sue lusinghe.
Nettamente diviso in due parti, nella prima si racconta di una discesa agli inferi dall’incontro fatale fra Mefistofele e Faust la domenica di Pasqua a Francoforte sul Meno sugli spalti di uno stadio nel pieno di una partita della squadra locale (il riconoscibilissimo Frankfurt Eintracht nonostante la storpiatura del nome) e l’inizio del “trip” allucinogeno siglato dal patto di sangue suggellato da un ago infilato dal demonio in vena a Faust. Una discesa costellata da immagini di distruzioni che culmina con la notte del sabba in versione rave party con il mondo “vuoto e tondo” come una “disco ball” e fiamme (proiettate) che avvolgono anche l’arcoscenico. Toccato il fondo con la morte di Margherita e le sue parole sprezzanti a Enrico/Faust, nella seconda parte la svolta avviene con il sabba classico rappresentato come una soirée musicale che, come in un gioco di specchi, ha luogo nella stessa sala del Teatro La Fenice nella quale si svolge lo spettacolo al quale noi spettatori assistiamo. Più che da una giunonica Elena in versione primadonna, Faust sembra essere attratto dalla musica e dal suo potere consolatorio e salvifico come emblematicamente mostra la sua ascesa, abbracciato a un violoncello, in una sala da musica accompagnato da un coro ancora invisibile di voci angeliche.
Con una buona dose di irriverente ironia, che non è lontana da quella che lo stesso Arrigo Boito mise in generosa quantità nella sua personale visione del Faust di Goethe, la coppia Leiser&Caurier firma una visione spiritosamente aggiornata dell’opera dal forte segno registico (finalmente!), saggiamente priva di qualsivoglia sentore di didascalica pedanteria o, peggio di visione morale, che poi è il miglior modo di servire quest’opera così creativamente imperfetta eppure vitalisticamente teatrale. Una teatralità esaltata nello spettacolo dalle scelte scenografiche essenziali di Moshe Leiser, che giocano molto sulla magia del palcoscenico vuoto saggiamente illuminato dalle luci di Christophe Forey, e dall’accozzaglia stilistica dei costumi in chiave contemporanea di Agostino Cavalca.
A dare valore a uno spettacolo perfettamente riuscito, si aggiunge anche l’impeccabile esecuzione musicale guidata dal braccio di Nicola Luisotti che non teme gli eccessi del Boito compositore, anzi li esalta, facendo splendere come raramente accade i complessi del Teatro La Fenice in stato di grazia in tutte le componenti. Notevolissima soprattutto la prova del coro, preparato in modo eccellente da Alfonso Caiani, al quale si aggiungono le voci bianche dei Piccoli Cantori Veneziani particolarmente sicure sotto la guida di Diana D’Alessio. Nella compagnia di canto giganteggia un Alex Esposito sempre più demoniaco: voce robusta e duttile, padronanza totale del fraseggio, grande disinvoltura scenica. Difficile resistere a un diavolo così. Piero Pretti si difende bene fra le asperità della scrittura vocale di Faust e veste bene l’abito registico, che sembra disegnato sulle sue possibilità. Come già Roma a inizio stagione, Maria Agresta torna nei panni di Margherita, un po’ affaticata questa volta e vittima di qualche veniale screzio vocale, ma capace di far alzare la temperatura drammatica del personaggio specialmente nella scena del carcere. Molto bene anche Maria Teresa Leva un’Elena vocalmente seducente anche se qui in versione di distaccata diva operistica. Ben disegnati anche i ruoli minori affidati a Kamelia Kander, Marta e Pantalis, e a Enrico Casari, Wagner e Nereo.
Tutto esaurito alla prima, salutata con eccezionale calore dal pubblico in piedi alla fine della rappresentazione. La miglior ricompensa al grande impegno dimostrato da tutte le maestranze del teatro veneziano per questa fortunata produzione.
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