Le città in Purcell e Brecht-Weill
Bologna: Singolare dittico per la lettura registica di Daniele Abbado
Il Teatro Comunale di Bologna recupera, nello spazio ‘nouveau’, parte di un progetto destinato alla sala storica, pensato dal regista Daniele Abbado quale discorso in tre tappe sull’idea di città, quella antica-primordiale (Cartagine prima di Roma, in Dido and Æneas di Purcell) e quella moderna-capitalista (Die Sieben Todsünden di Brecht-Weill, un immorality play le cui stazioni toccano sette metropoli nordamericane). Il forzato adattamento al nuovo palcoscenico, assai schiacciato in altezza e non molto profondo, ha forse costretto meno in Brecht-Weill, dove codici visivo-gestuali da spettacolo leggero e differenti spazialità d’azione (la doppia Anna – quella ‘danzata’ di volta in volta alle prese con una variopinta società, la Famiglia sempre intronata in un perturbante divano) hanno ritrovato più agevolmente la loro declinazione, che in un Dido and Æneas comunque elegantemente disegnato tra arcaico e attuale, peraltro, le mobilità delle fonti del testo verbomusicale nel capolavoro di Purcell hanno permesso agli autori del testo spettacolare bolognese sia pregnanti opposizioni di genere (maghe e streghe sono voci maschili), sia stimolanti innesti musicali registrati: quelli dai Cori di Didone di Nono meriterebbero perfino, con l’esecuzione live, un’estensione e una funzione più consistenti del sipario sonoro adottato, e Okanagon di Scelsi in chiave rituale evoca improvvisamente una magia degna della Medea cinematografica.
L’acustica della sala ha di nuovo aiutato poco in Purcell, non valorizzando - ad es. – l’alternanza dei diversi timbri del continuo; la prova vocalmente incerta delle due principali interpreti femminili ha fatto il resto (più in risalto, per nuance e piglio, i ruoli maschili, soprattutto Francesco Salvadori e Bruno Taddia). Tutto è filato meglio nella seconda parte, con Danielle de Niese – peraltro temibile la scelta di impegnarla anche come Didone – più a suo agio nella trascolorante vocalità di Brecht-Weill, benché una fonetica maggiormente scolpita di quel caratterizzante tedesco sarebbe stata apprezzabile; granitico e tagliente il quartetto della famiglia; plastica e insieme fluida la direzione di Marco Angius. Peccato che una piccola parte del pubblico abbia scelto di non godersi la bella realizzazione di Die Sieben Todsünden, ma nonostante le defezioni all’intervallo gli applausi finali sono stati assai convinti.
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