La pazzia di Peter Grimes
Successo per Britten alla Scala diretto da Simone Young
Va subito detto che, con questa edizione del Peter Grimes di Britten, la Scala ha fatto l'en plein. Bene ha fatto Robert Carsen, che firma la regia, a scegliere la scena fissa ideata da Gideon Davey (aula di tribunale o del consiglio comunale che sia), evitando le insidie di una ambientazione verista, con barchette e spiaggia. Il locale dalle pareti di legno rimane perennemente cupo, ma dopo il giuramento di Peter al processo, si trasforma a vista nel pub, nella capanna di Peter, nella chiesa, grazie a dei marinareschi servi di scena che operano durante gli intermezzi. Il tal modo amalgamati nella trama e non più momenti di sola meditazione sinfonica, come previsto dal compositore. La parte alta del tribunale, sopra una balaustra praticabile, è invece bianca e permette di proiettare dei filmati: il volto di Peter con gli occhi allucinati, quello del primo mozzo morente fra i pesci pescati, delle nuvole tempestose, i marosi che travolgono la barca del suicida, quanto serve. Carsen ha inoltre inventato due efficaci infrazioni al libretto. Nel finale è previsto che il capitano Balstrode inciti Peter a prendere il largo e ad affondare, mentre qui le sue parole sono cantate dallo stesso Peter che dà ordini a se stesso in terza persona, a riprova che il suo viaggio verso la pazzia si sta concludendo. Inoltre, sulle ultime battute dell'orchestra, ricompare la scena del processo inziale, con Peter che giura sulla Bibbia di dire la verità, vale a dire che non è responsabile della morte del mozzo. Morale suggerita dal regista: tutta la vicenda è stata solo frutto del senso di colpa di Peter per non aver salvato la vita al mozzo. Anche se non libera del tutto lo spettatore dall'atmosfera ansiogena che ha pervaso tutto lo spettacolo. Ancora una volta a Carsen va riconosciuta una grande maestria nel curare la recitazione dei cantanti, soprattutto dei coristi, gli abitanti del borgo rissosi e ubriaconi che si nutrono di dicerie, di calunnie a caccia dell'agnello sacrificale. Il che aggiunge un'altra medaglia al regista, che lo pone ai vertici della scena lirica.
La direzione di Simone Young è risultata molto convincente, ottenendo dall'orchestra sonorità aspre, nervose, avvicendate a momenti delicatissimi, con padronanza assoluta dell'equilibrio tra orchestra e cantanti sul palco, e confermando così quanto sia a proprio agio col repertorio del Novecento (già dimostrato pochi giorni fa alla Scala con Turangalîla di Messiaen). Oltre al coro, diretto da Alberto Malazzi, che è sempre una certezza, tutto il cast è risultato di ottimo livello. Con due fuori classe, Brandon Jovanovich (Peter) e Nicole Car (Ellen). Il tenore americano è stato in grado di alternare vocalmente aggressività, smarrimenti, con assoluta naturalezza e rara disinvoltura in scena. Da segnalare il dolce disincanto con cui ha affrontato la sua celebre aria ""Now the Great Bear" quando guarda il cielo stellato. Il soprano australiano è stato alla sua altezza, Nicole Car ha voce dal timbro dolcissimo, ma capace di violente impennate. Ha saputo rendere in modo toccante "Embrodery" nel terzo atto, accompagnata dall'arpa e dagli archi, che è quasi un'oasi di pace nel dramma.
Al termine lunghissimi applausi per tutti, specie per Simone Young, accolta con grande calore dal pubblico scaligero, e per Robert Carsen e il suo staff.
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