Tragico Don Giovanni

Riccardo Muti al Regio di Torino

Don Giovanni (Foto Andrea Macchia)
Don Giovanni (Foto Andrea Macchia)
Recensione
classica
Teatro Regio Torino
Don Giovanni
18 Novembre 2022 - 26 Novembre 2022

Grande classico mozartiano e titolo sicuro per concludere operisticamente una stagione, questo Don Giovanni è, soprattutto, una riflessione sulla fine. Mai era suonato, da cima a fondo, così tragico. Complici anche le scene giocate su tonalità cineree: il colore di abiti, luci (Vincent Longuemare), fondali è identico alla musica. Sembra pura mimesi visiva.

Il Don Giovanni si pone registicamente nel solco già tracciato (Così fan tutte con la regia di Chiara Muti, ripreso al Regio l’anno scorso, aveva debuttato a Napoli nel 2018): palette cromatica diafana, abiti eleganti e leziosi (Tommaso Lagattolla), movimenti di scena minimi, scenografie essenziali, recitazione sobria. C’era, tuttavia, un guizzo nel Così fan tutte (a Napoli i sogni – o le illusioni? – dei protagonisti brillavano nel mare di cartapesta e i grandi specchi ne riflettevano le figure) che sembra spento in questo Don Giovanni. Un edificio scomposto, quasi crollato, a far da cornice all’azione, abbozza fin da subito una risposta sul probabile sviluppo: non s’intravede possibilità di redenzione. Ombre si stagliano sul fondo della scena (Le parche? Le tre donne?): ma, anche a occhi chiusi, le inquietudini s’agitano tutte nell’Ouverture a chi sappia intenderla. L’impostazione registica, quasi astratta, acuisce la tragicità della lettura di Muti padre. A cosa, o a chi, stiamo dicendo addio?

Cosa rende, al di là del cast e dell’orchestra e del coro, differente questo Don Giovanni da altri già ascoltati (o incisi) negli anni scorsi? Il direttore tiene sempre un certo distacco, come se potesse osservare il baldo protagonista in scena dal di fuori. Con precisione, fermezza, intelletto, ma con lo sguardo di chi sa come va a finire e che guarda le gesta del nostro eroe con compassione. Questo controllo è calibrato e funzionale come un climax, prima freddo e poi di fuoco, che sfocerà nell’amaro epilogo. Tutto è equilibrato in questa lettura: gli archi scattanti e leggiadri come mannheimer redivivi, i grandi insiemi, le arie, persino il recitativo accompagnato (dal fortepiano di Alessandro Benigni) da sempre seguito con attenzione maniacale, i momenti che tutti aspettano, le battute che a duecento anni di distanza fanno immancabilmente ridere il pubblico. Ma non è leggero, bensì tragico. Non si sorride spesso, in questo Don Giovanni: sfila una teoria di personaggi immortali con le qualità che conosciamo. Come a dire: son sempre loro. Ecco l’eterno ritorno di baruffe, piccoli inganni, afflati del cuore, tornaconti e grandi meschinità. Eccolo Don Giovanni: uno che non sa dominare i propri istinti, compiaciuta vittima di se stesso. Un pedofilo, addirittura? Una lettura musicale smaliziata delle donne del Catalogo (Muti accenna in un articolo a quel “piccina”, ripetuto varie volte. Scrive: “Cosa indicherà quella quartina veloce, messa lì accanto come commento in orchestra, al centro di un intervallo di semitono, la diesis-si, veloce e piccolo piccolo? Ognuno pensi quel che vuole,” Sole 24 ore, 13 novembre, p. 3) e una scelta registica un poco naif – alcune  fanciulle si baloccano con coriandoli argentei mentre il Catalogo viene snocciolato da Leporello – suggerirebbero l’ennesima perversione di Don Giovanni.

In questo laboratorio dove il direttore controlla che tutto proceda come deve, quasi fondesse dei metalli, con la maschera in volto e la fiamma ossidrica in mano, accadono momenti di sconvolgente bellezza: insufficienti sono le nostre parole a descrivere l’attacco di Dalla sua Pace (il Don Ottavio di Giovanni Sala ha però margini per migliorare) o la dolcezza impressa a Batti, batti (intonata dalla spigliata Zerlina, Francesca Di Sauro).

Tutta l’opera ruota attorno alla voce di Luca Micheletti che è indiscusso protagonista - vocalmente cresciuto e ora più convincentemente seduttivo -, lasciando forse un po’ in ombra i ruoli femminili (Jacquelyn Wagner, Donna Anna e Mariangela Sicilia, Donna Elvira), il coprotagonista (Alessandro Luongo, Leporello) e il Masetto di Leon Košavić che non riescono a emergere davvero. Ottima la prova del Commendatore (l’inossidabile Riccardo Zanellato), questa volta nascosto in buca: i suoi moniti, arrivano da un luogo invisibile alla maggior parte del pubblico e perciò suonano ancor più spaventosi, ben fondendosi coi suoni degli strumenti. L’orchestra e il coro del Regio splendono come non mai.

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