Il violino di vetro di Irvine Arditti
Un emozionante recital in solo di Irvine Arditti al Teatro Farnese di Parma
Occasione imperdibile un recital in solo del fondatore dell'omonimo String Quartet: Irvine Arditti, l'Archimede del violino – così è stato definito da Maxine McKinley – in uno dei teatri più belli del mondo, il Farnese di Parma, all'interno di Traiettorie, Rassegna Internazionale di Musica Moderna e Contemporanea giunta quest'anno alla sua trentunesima edizione.
Come già accaduto in Romagna tre anni fa in occasione del Forlì Open Music organizzato da Area Sismica, dove il musicista inglese aveva rapito il pubblico con una esecuzione strabiliante dei Sei Capricci di Salvatore Sciarrino (recente protagonista di una residenza proprio ad Area Sismica con l'ensemble Istantanea), anche stavolta risulta difficile trovare parole per una performance che quasi intimorisce. Il cronista non può prendere i soliti appunti durante le esecuzioni: il magistero del musicista inglese richiede attenzione assoluta, diremmo intimo silenzio, e devozione; sparire nella musica è quello che vogliamo (finalmente possiamo?) fare al cospetto di un interprete capace di convocare spiriti con la potenza della sua arte.
Il controllo impressionante dello strumento fa sembrare semplici partiture che invece non lo sono affatto, esplorazioni delle possibilità e delle impossibilità dello strumento. Una lunga apnea celeste in cui perdersi per poi abbandonare anche il vano desiderio di capire: questa è musica che va sentita, che cancella le vacue pretese del nostro linguaggio di dire tutto e chiede solo, come diceva Octavio Paz, di chiudere gli occhi e aprirli verso dentro.
Il programma attraversa alte terre dove veniamo guidati da corde e archetto che frugano in ogni angolo possibile dell'universo. Difficilmente sentirete un altro violino suonare così. In un'ora abbondante che mira oltre il cielo svetta innanzitutto l'incipit con la prima esecuzione italiana di Another Face di David Felder, tutta avvisaglie, avvertimenti, veglie e saliscendi in un'aria tesa e rarefatta che sfuma in un infinito punto interrogativo e ci lascia a trattenere il respiro. Poi i meccanismi invisibili e perfetti di Elliott Carter con 4 Lauds, come il trillo di un diavolo che saluta beffardo il Novecento tra labirinti, specchi, e l'elogio dell'ombra di un profilo che sfugge non appena accenna a prendere forma.
I colori invisibili (Unsichtabare Farben) di Brian Ferneyhough, come la descrizione acustica di luci intermittenti, remote e indicibili, ad un passo dal buio, gli accenti e le modulazioni di imagE/violin &imAge /violin di Roger Reynolds, tra smarrimento e nitore (anche questa una prima italiana).
Con la chiusura di Einspelielung I (del compositore portoghese Emmanuel Nunes) siamo su un altopiano brullo e sconfinato, prede di una lieve, rarefatta vertigine. Ci sono frangenti in cui la pulsazione, inesausta, rallenta ed un senso di (dis)apparente, eterna (e)stasi si fa largo nelle orecchie e nelle vene. Poi riprende la danza acustica del mistero, continuiamo ad ascoltare la voce inafferabile di creature che non appena sembrano riconoscibili si dissolvono.
Con Irvine Arditti, miracolosamente, come fosse la cosa più naturale di questo mondo, prende sostanza un luogo evocato dalla poetessa polacca Wislawa Szymborska. «Si fece un violino di vetro perché voleva vedere la musica».
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