A Torre del Lago per la prima volta il finale di Berio per Turandot
Lo spettacolo con la regia di Daniele Abbado e la direzione di John Axelrod
Al Festival Puccini 2021 si rappresenta per la prima volta Turandot con il finale scritto da Luciano Berio nel 2001. Si tratta di una coproduzione con il Teatro Goldoni di Livorno, con regia a firma Daniele Abbado. Qualche goccia di pioggia interrompe lo spettacolo poco dopo l’inizio, ripreso e concluso sotto un plenilunio naturale che, parallelo a quello scenico del riflettore, ha arricchito in modo fiabesco il molto accurato disegno luci di Angelo Linzalata, autore pure delle scenografie. La parte visiva cattura per la policromia dei bei costumi di Giovanna Buzzi che, in sintonia con la mobilità delle scene rotanti, richiama il progresso tecnologico e variopinto del trascorso Novecento non scevro di un misticismo connesso ad un potere temporale parallelo a quello politico: i concetti sono enucleati dalla posizione stratificata della Principessa e dell’Imperatore, le cui immagini sono simili a venerabili icone. In questo contesto storico, vive «l’eterno confronto Amore-Morte» [Abbado] e si inizia a storicizzare il secolo scorso cercando di proiettarlo in un futuro incerto, nel quale Turandot simboleggi un «destino [capace] di generare e ospitare finali di significato diverso.» [Abbado]. Nell’ottica novecentesca, con pochi e significativi tratti di penna, il regista mostra anche la crudeltà legata a vari fatti di sangue: la preparazione alla pena capitale del Principe di Persia, pressoché denudato prima dell’esecuzione e il cui cadavere, trasportato dai servi, è interamente ricoperto di sangue dopo la sua decapitazione: la visione un po’ macabra, lascia intuire che il Principe sia pure stato oggetto di torture cruente; la nudità simboleggia avergli tolto anche la dignità e non solo la vita.
Un autentico, sottile e acuto colpo d’ala, Abbado lo realizza nel suicidio di Liù: anziché pugnalarsi, la fanciulla si avvelena bevendo e cospargendosi addosso un liquido da un recipiente raccolto lì vicino. A tutta prima, sconvolgere il suicidio di Liù rispetto al libretto, potrebbe sembrare una variante gratuita e senza senso. Invece, il gesto richiama il suicidio di Doria Manfredi, la giovane cameriera al servizio in casa Puccini che si uccise ingerendo tre pastiglie di sublimato: una sostanza altamente corrosiva che la stessa Doria usava per pulire i pavimenti della villa di Puccini a Torre del Lago. Per la cronaca, il sublimato, o dicloruro di mercurio, era una sostanza solida, cristallina e velenosissima, usata in passato in soluzione molto diluita come disinfettante e antibatterico.
L’intelligente idea registica, non solo rende un omaggio silenzioso e tuonante al tempo stesso alla giovane Manfredi, ma legge Turandot come il testamento autobiografico di Puccini, dove ciascun personaggio o situazione sono elaborati in modo sottile, criptico, come riassunto della vita di Puccini stesso. È innegabile come Liù rappresenti Doria, soprattutto se si pensi che il personaggio non esista nella fiaba originale di Gozzi, ma Puccini – che non scriveva mai nulla a caso – lo volle inserire a tutti i costi.
Nel complesso, la parte visiva scorre come un meccanismo ben oliato: il continuo movimento non lascia spazio a momenti di stasi; ben disposta anche la geometria delle masse corali.
Ottima ed efficace, la soluzione dei soprattitoli, in italiano e in inglese, proiettati su due maxischermi posti ai lati del boccascena, mentre la traduzione in cinese del libretto, curata da Giuseppe Avino, è proiettata sui pannelli usati per la scenografia in palcoscenico.
La parte musicale, invece, non dimostra la stessa accuratezza e qualità di quella visiva. La bacchetta di John Axelrod indugia sulla monotonia dei tempi, talvolta troppo ‘seduti’ e con poco sostegno alle voci; frequenti gli scollamenti tra buca e palco, inclusi i soli e il Coro del Festival Puccini (istruito da Roberto Ardigò), privo di omogeneità e sintonia. L’altro coro, quello delle Voci Bianche sempre del Festival Puccini curato da Viviana Apicella, è molto equilibrato e ottiene decisamente un buon risultato.
L’Orchestra, ancora del Festival Puccini, si destreggia in maniera dignitosa nonostante imprecisioni dovute, forse, alla tensione degli strumentisti per il possibile manifestarsi di imminenti piovaschi; ciò si avverte principalmente nel finale di Berio e nei brevi passaggi "wagneriani;" questo finale è presentato per la prima volta al festival torrelaghese, a cui va un forte plauso per l’interessante scelta. Completamente diverso da quello di Alfano, Berio elimina lo stile di fanfara del primo finale, conferendo all’orchestra un sapore più delicato e significativo al tempo stesso, intervenendo con l’orchestra anche sulla drammaturgia, poiché dopo la conclusione pucciniana, Berio fa proseguire la vicenda proprio dalla timbrica orchestrale quasi senza soluzione di continuità, conferendo un’unità drammaturgica su un tappeto armonico novecentesco intersecato dagli appunti lasciati da Puccini. Prescindendo dalla conclusione della vicenda, simile a quella appena profilata da Puccini e dai librettisti, nel finale di Berio protagonista è l’orchestra, poiché alle melodie e armonie pucciniane e wagneriane si aggiungono in giustapposizione quelle elaborate dallo stesso Berio: un sipario ancora aperto sul futuro fondato su forti basamenti del passato, quasi a richiamare il sibillino pensiero verdiano «torniamo all’antico e sarà un progresso».
Dolenti note, è il caso dirlo, per le voci. Emily Magee (Turandot) ha un’emissione incostante e monocorde al limite dell’inespressivo, sui passaggi l’intonazione vacilla; Magee ha maggior dimestichezza nella parte acuta, dove però lo squillo è stridulo e pressoché privo di armonici; la dizione in lingua italiana è assai mediocre.
Ivan Magrì è un Calaf dall’inizio molto incerto e approssimato, cantato quasi ‘a risparmio’; nel corso dell’opera, il tenore si riprende gradualmente puntando tutto sul portamento strappa applausi conclusivo in “Nessun dorma”. Sia Magee sia Magrì, interpretano i due temibili ruoli con asettico distacco.
Interessante per correttezza tecnica e impegno interpretativo, da riascoltare in altro ruolo e altro contesto, la giovane Emanuela Sgarlata (Liù).
Deludono Giulio Mastrototaro (Ping), Marco Miglietta (Pong) e Andrea Giovannini (Pang), soprattutto nel secondo atto: più che cantare, i tre interpreti si prodigano in una sorta di declamato malamente recitato; l’intonazione è un optional e gli assiemi sono costantemente sfalsati. Seri problemi di intonazione anche per Fleur Strijbos (Prima Ancella) e Luisa Berterame (Seconda Ancella). Nei ristretti limiti di un pressoché dignitoso comprimariato, Nicola Ulivieri (Timur), Kazuki Yoshida (Altoum), Giovanni Cervelli (Principe di Persia) e Francesco Facini (Mandarino).
Il folto pubblico, accolto e disposto rigorosamente (e giustamente) secondo le attuali disposizioni anti Covid, ha comunque dimostrato gradire in modo completo lo spettacolo, elargendo sonori e duraturi consensi sia durante sia al termine dell’opera.
Turandot sarà replicata il 30 luglio, il 14 e il 20 agosto.
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