Divi dell’opera offronsi (pria che la notte scenda)

A Bologna, un trionfale concerto di Jonas Kaufmann chiude simbolicamente il sipario sui teatri italiani, dopo quattro mesi di sfide a denti stretti

Kaufmann e Fisch (Foto Andrea Ranzi)
Kaufmann e Fisch (Foto Andrea Ranzi)
Recensione
classica
PalaDozza, Bologna
Gala Kaufmann
25 Ottobre 2020

È il tormentone che sentiamo ripetere da quando frequentiamo l’opera: i cantanti famosi non vengono in Italia perché la programmazione è tardiva, e se li accaparrano per primi i teatri stranieri.

Ma in questi mesi i rapporti si sono ribaltati. Molti teatri importanti sono chiusi o annullano le produzioni più complesse (il Met ha dato appuntamento al settembre del prossimo anno). Le agende dei divi si sono conseguentemente svuotate, pronte ad accogliere l’ingaggio dell’ultimo minuto, anche in location d’emergenza.

Se il concertone di Juan Diego Flórez in piazza a Pesaro rientrava quasi nell’ordine delle cose, la “Tosca” di Anna Netrebko a Napoli è stata di certo un evento. E che a Firenze si siano esibiti Plácido Domingo e Cecilia Bartoli a sere alterne sa di fantaopera.

Dopo mesi di forzato silenzio c’era tanta voglia di cantare, anche senza apparati scenici e regie indisponenti. Al palasport di Bologna, il mese scorso, Jessica Pratt non si fermava più: doveva essere la prima parte di un concerto sinfonico con tre pagine di belcanto, ma dopo un’ora e un quarto, lei era ancora lì a cantare bis su bis. Giunta alle volatine di «Sempre libera», un omone s’alza dalla platea, t-shirt bianca sotto la giacca casual, e attacca disinvolto «Amor è palpito» con l’aria di chi dice «Passavo di qui e la sapevo»: scoprimmo essere Michael Spyres, il più giocherellone fra i tenori, ma pare che nessuno in teatro ne fosse a conoscenza.

Tutti di nuovo in scena, finché COVID non ci separi. Il tampone è infatti diventato per qualche mese l’artefice principale dei cartelloni, rivoluzionati all’ultimo in funzione del bollettino medico. 

Jonas Kaufmann, alla Scala nei giorni scorsi per un concerto solistico, si sarebbe accollato pure un’“Aida” last minute per sostituire il collega infetto, se al secondo tampone tutta la compagnia non fosse stata messa in quarantena. L’opera si è così trasformata in una serata di arie con altri cantanti presenti su piazza.

Trasferitosi da Milano a Bologna, il tenore più acclamato  del mondo avrebbe dovuto duettare con Anita Rachvelishvili, coinvolta però anch’essa nel contagio della Scala. Ha dunque affrontato l’attesissima serata di gala insieme al mezzosoprano francese Clémentine Margaine: voce sontuosa, tonda e brunita, lussureggiante e lussuriosa nella seduzione di Dalila, imperiosa Amneris, Carmen brillante.

Asher Fisch rappresentava la ciliegina sul podio. Privato all’ultimo del coro, sempre per i motivi suddetti, ha ben lavorato con l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, trovandosi a nozze con il fastoso sound tardoromantico che faceva da filo conduttore all’intero programma: l’Intermezzo di “Manon Lescaut” n’è uscito un capolavoro.

Ma tutti aspettavano LUI. Come spesso accade, la prima aria è deludente: la disomogeneità fra i registri disorienta all’ascolto, la nota iniziale di ogni frase cerca a fatica il punto esatto d’intonazione. Poi, come sempre accade, arriva il miracolo: sarà che la voce si scalda, sarà che il nostro orecchio si avvezza, oppure il declamato di “Chénier” si accorda alla vocalità irripetibile di Kaufmann meglio del cantabile lirismo di “Gioconda”. L’Addio di Turiddu, recitato in maniera personalissima, ti rapisce per le mezze voci (mai falsetti); e quando Alvaro invoca a piena forza “Leonora mia, pietà del mio penar”, ci sentiamo tutti Leonora – specie se hai la fortuna di trovartelo di fronte, che ti canta a due metri di distanza, solo per te...

Il pubblico è già in delirio quando comincia la roulette dei bis (lui tanti più di lei), comunicati all’orchestra di volta in volta, fra la rosa dei brani preparati. Sembra quasi vogliano tirare lungo fino a mezzanotte, l’ora fatidica in cui i sipari d’Italia verranno nuovamente chiusi, inaspettatamente richiusi da un decreto di poche ore prima, che nessuno invero si aspettava così drastico per i teatri. E «Nessun dorma!» assume allora un valore simbolico, di stimolo a reagire.

Non si potevano concludere meglio questi quattro mesi di ossigeno musicale, 133 giorni di finta normalità, riservata ahimè ai pochi fortunati che potevano accedere a platee dimezzate.

Per chi voglia ora sentire musica dal vivo non restano che gli organi in chiesa: ne abbiamo tanti, preziosissimi, e gli organisti di talento non mancano certo in Italia. Che si facciano avanti!

 

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