Genova riscopre Stradella
Al Carlo Felice inaugurazione di stagione con Il Trespolo Tutore
Correva l’anno 1682 quando, una notte, rientrando a casa, nella centrale piazza Banchi di Genova, Alessandro Stradella, l’Orfeo romano, veniva assassinato da due sicari assoldati da un marito potente e geloso. Quelle coltellate misero fine a una vita spericolata in parte vissuta a scappare da una città all’altra per sfuggire a condanne o tentativi di assassinio e in parte spesa al servizio della musica con alcune opere che ne rivelarono e ne rivelano tuttora la genialità e la capacità di guardare avanti. Una significativa dimostrazione la offre l’opera “Il Trespolo tutore” che con una buona dose di coraggio il Teatro Carlo Felice ha proposto quale spettacolo inaugurale della nuova stagione lirica.
Un azzardo non solo perché l’opera è pressochè sconosciuta ai melomani, ma anche perché il suo respiro “cameristico” rischiava di perdersi negli ampi spazi di un Teatro che è fra i più grandi a livello nazionale e che pur con le norme anticovid può ospitare quasi mille spettatori.
La sfida, va detto, è stata vinta perché il pubblico ha gradito e le sonorità stradelliane si sono nel complesso ben adattate agli spazi postmoderni del teatro genovese.
L’opera si basa su un libretto che il poeta Cosimo Villifranchi a sua volta trasse da una commedia scritta da G.B.Ricciardi. In pieno clima barocco si ritrova un linguaggio assai più licenzioso di quello cui ci ha abituato la librettistica ottocentesca: qui le pulsioni sessuali vengono esplicitate senza tante parafrasi e si arriva persino a concepire l’idea di un matrimonio fra due donne!
Trespolo dunque è un tutore. L’aggiunta dell’aggettivo “balordo” nella successiva edizione bolognese dell’opera la dice lunga sulla sua dabbenaggine. La sua pupilla è Artemisia che di Trespolo è innamorata. Si crea un intreccio alquanto intricato fra innamoramenti, pazzie e personaggi che impazziscono e personaggi che ritrovano la ragione che coinvolgono Artemisia, i fratelli Nino e Ciro, la balia Simona e sua figlia Despina (nome ben caro alla letteratura comica musicale) fino allo scioglimento finale alquanto inaspettato e (come spesso accade nel Seicento) piuttosto incoerente. Il discorso si sviluppa essenzialmente sulla base di un recitativo secco articolato che dà spazio a momenti più lirici (arie) e talvolta duetti. Il ricorso a voci maschili per i ruoli femminili e viceversa rientra in una prassi che, comune all’epoca, sarebbe stata negata poi dal teatro comico settecentesco nel nome di un maggiore realismo scenico.
La regia dell’allestimento genovese era di Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi che avvalendosi dell’impianto scenico di Leila Fleita hanno optato per una lettura atemporale evitando dunque il pericolo di una ricostruzione filologica rispettosa delle rappresentazioni barocche. Il palcoscenico è stato “ristretto” con quinte più ravvicinate, una scalinata che copriva l’intero spazio era limitata da grandi cornici luminose.
Una lettura senza fronzoli e inutili invenzioni, asciutta anche nella interpretazione, in perfetta sintonia con la musica stradelliana.
Sul podio c’era un esperto del settore quale Andrea De Carlo che ha curato ogni dettaglio e garantito una interpretazione duttile nell’adattarsi alle diverse suggestioni offerte dalla partitura. Ottimo per verve vocale e scenica il cast: Marco Bussi (Trespolo), Raffaella Milanesi (Artemisia), Carlo Vistoli (Nino), Juan Sancho (Simona), Silvia Frigato (Ciro), Paola Valentina Molinari (Despina).
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