Tre violoncelli per Mito
Giovanni Sollima, Enrico Dindo e Mario Brunello a Torino per MITO Settembre Musica
Giovanni Sollima ha offerto, il 7 settembre, un concerto solista. Nonostante il palcoscenico del Conservatorio e la sala riempita dal pubblico distanziato appaiano immensi nel mondo stravolto post-covid, colpisce e resterà impressa anzitutto la dimensione intima e raccolta. Questa sera, per noi, si riannodano i anche fili del concerto dal vivo “al chiuso” (all’aperto tutto va bene, ci si sente meno vulnerabili e impauriti), i fili di un discorso interrotto con la musica, con gli interpreti e con se stessi. Sollima ci porta in un viaggio, in quel suo modo peculiarissimo che lo contraddistingue e che ti fa pensare a ciò che credevi di conoscere in un modo diverso perché è declinato in una lingua assai personale. Un viaggio tra lande remote (il Trattenimento musicale sopra il violoncello di Domenico Galli, parmense attivo alla corte di Francesco II di Este, i Capricci di Dall’Abaco), note (Bach, Terza Suite in la minore), aspre e selvagge (Bloch e Stravinskij) e sconosciute (in prima esecuzione assoluta la Song dello stesso Sollima).
Un viaggio circolare: dove la tradizione dialoga con la contemporaneità e nella quale cogliamo con lampante immediatezza il percorso che lo strumento ha compiuto nei secoli. Oppure, intuiamo in modo sorprendente come il violoncello possa mettersi anche nei panni di un altro strumento nei Tre pezzi per clarinetto di Igor Stravinsky, cui l’interprete ha semplicemente cambiata la diteggiatura. Sollima esplora ogni possibilità, spremendo tutto quello che può dalla musica. Con "Song" dalla neonata opera Acquaprofonda dedicata all'inquinamento dei mari (che andrà in scena al Teatro sociale di Como, libretto di Giancarlo De Cataldo), ci immergiamo nel liquido amniotico dei live electronics attivati da Sollima stesso sullo smartphone, che il musicista/compositore regge insieme all’arco. Una mutazione genetica, un sogno marino degno del film La forma dell’acqua.
– Leggi anche: Il violoncello di ghiaccio di Sollima
Impaginato in modo completamente diverso è il recital di Enrico Dindo che si è tenuto, sempre nella sala del Conservatorio di Torino, l'11 settembre. L’unico punto di contatto tra i due concerti è Bach (Suite n. 1 in sol maggiore), a cui sempre si torna e ritorna, come scaturigine primigenia di tutto quanto segue. Due i brani recentissimi, composti nel 2019 da Carlo Boccadoro e Fabio Vacchi per commemorare l’anniversario della caduta del Muro di Berlino; affianco a loro, quelli di Mieczysław Weinberg (1919-1996) e di Eugène Ysaÿe. Due le correnti contrapposte, due atteggiamenti diversi si fronteggiano in un concerto dove tout se tient: la classicità (Bach) e il melodismo (Boccadoro) contro quella ruvidezza e quella violenza espressiva che a tratti caratterizzano sia Weinberg sia Ysaÿe. In mezzo, in equilibro, la Sonatina III di Vacchi aperta da un gesto netto e che, quasi a espansione, come un sasso gettato nell’acqua, ci fa osservare i cerchi generati da quell’apertura.
Si parte dalla sconsolatezza di Dalla memoria («il mio brano - scrive Carlo Boccadoro - è un canto interiore, di poche note, intense e distanti proprio come il ricordo di un tempo che non esiste più»). per approdare a Weinberg, compositore che sta fortunatamente conoscendo una renaissance, che colpisce come un pugno e ti butta al tappeto (in particolare, l’Allegro della sua Prima Sonata, forse la più celebre). Si “torna” a Bach, scrivevo qualche riga più sopra, non solo rispetto al concerto di Sollima che quattro giorni fa lo ha ancora riportato sulle tavole del palcoscenico. Dindo interpreta stasera la Prima Suite, e noi torniamo con lui a Bach anche per un altro motivo, personale, questa volta. La domenica di Pasqua – giorno che molti non hanno potuto trascorrere con la loro famiglia per colpa della pandemia – Enrico Dindo ha scelto di offrire su Facebook un’esecuzione live della Terza Suite. Riascoltare lo stesso interprete alle prese con Bach, questa volta dal vivo, a così poca distanza di tempo, è stato come rivedere in prospettiva momenti che percepiamo lontanissimi e come avvolti da una spessa bruma. Quella domenica "piovuta dal cielo" sembra ora il dono di una sorta di famiglia allargata: la preziosa comunità (un’ecclesia che, come nell’antica Grecia, si riunisce a periodicità regolare) fatta da interprete e pubblico che si è dimostrata così fragile di fronte alle insidie della vita e della malattia. Il tempo staccato da Dindo, questa sera, è stato agilissimo e leggero, come se ci fossimo lasciati alle spalle delle pesantezze.
È un lusso poter ascoltare a qualche giorno di distanza tre fuoriclasse dello stesso strumento che non potrebbero essere più diversi. Se si dovesse definirli con una parola Sollima sarebbe il selvaggio, Dindo il tradizionale e Brunello il mistico. Tutto il concerto di Mario Brunello del 15 settembre è improntato su un’idea di tempo circolare e su colori che virano allo scuro scurissimo che par di addentrarsi nelle Prigioni di Piranesi. Si entra attraverso Biber e la sua Passacaglia “L’angelo custode” tratta dalle Sonate del Rosario. Il ciclo, la cui origine è avvolta dal mistero, nacque probabilmente nell’ultimo quarto del Seicento per affiancare alla meditazione musicale a quella religiosa, dettato dell’esigenza di introspezione perseguita per mezzo di una serie di contemplazioni sul mistero del rosario. Con naturalezza, quasi senza avvertirne salti spazio-temporali (che pure ci sono), siamo condotti per mano nella Chaconne di Brian Ciach (2008) per violoncello amplificato e musica elettronica. Un momento sciamanico. La sequenza non lineare di quinte elaborate dalla macchina – come scrive nel bel programma di sala Oreste Bossini – si propagano a velocità diverse dando luogo a delle sovrapposizioni. Questo genera una sospensione immobile del tempo che si muove impercettibilmente.
Il mistero sembra infittirsi nella Terza Sonata di Weinberg (che, a sua volta, ci riporta circolarmente alla seconda serata di Mito dedicata al violoncello) e poi con Les folies d’Espagne (dai Pièce de Viole, secondo libro), incastonato al centro del programma, originariamente per viola da gamba, nella trascrizione di Maurice Gendron.
Parrebbe forse necessario in un percorso che s’addentra così profondamente tra gli spiriti (questo il tema della presente edizione di MiTo) una piccola pausa per cercare di capire a quale punto del percorso siamo giunti. Sarà lo straordinario Jesus’ Blood Never Failed Me Yet di Gavin Bryars a riprendere i fili sino a qui annodati (proprio come quando, a volte, ci si perde nella sequenza del rosario, saltando un grano): incentrato sul canto religioso di un anziano clochard registrato a Londra da Bryars negli anni Settanta, e qui mandato in loop, su cui si innesta la meditazione del violoncello. Sfumano i confini tra musica e canto, tra intonazione (violoncello) e non intonazione (la voce). È la bellezza che si annida dove non pensiamo esista, né possa attecchire.
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