Il suono vellutato di Valčuha
A Bologna, con l’orchestra del Teatro Comunale ai migliori livelli
La sfida di questa recensione è riuscire a trattare il concerto di Juraj Valčuha appena ascoltato a Bologna come se fosse un normale concerto, al di fuori della retorica sulla “ripresa” delle attività musicali. Ma non è facile.
La dislocazione dell’orchestra nella sala del Bibiena è ancora eccezionale, come già descritto in occasione della riapertura del Teatro Comunale. Il pubblico è rarefatto, non certo per disinteresse ma per limiti legislativi. E l’orchestra ha una particolare carica emotiva bisognosa di esprimersi, dopo mesi di forzato silenzio, che si ripercuote tutta sulla qualità del suono.
In quasi cinquant’anni di concerti visti in questo teatro, non ricordo un attacco così perfetto, così magico: senza esagerare, sublime. Erano le prime quattro battute del Notturno in sol bemolle di Giuseppe Martucci come non le avevamo mai sentite: merito degli archi in stato di grazia? del direttore che li ha saputi intrecciare in un tessuto più morbido d’ogni velluto? della sala che proprio dei velluti fonoassorbenti è ora del tutto priva, con risultati acusticamente inediti che non cessano di sorprenderci?
Valorizzato a tal punto, il brano eguaglia ogni “adagietto” mahleriano di là da venire. E l’accostamento al Siegfried-Idyll di Wagner ci addita da dove veniva a Martucci l’ispirazione per il gioco seducente di ritardi, appoggiature e cromatismi. Qui il merito di Valčuha è vivificare quel temino semplice e ripetitivo che percorre l’intera composizione, troppo spesso eseguito da altri in modo meccanico e sbrigativo. Nella sua concertazione emergono invece sonorità crepuscolari, quasi decadenti.
Date queste premesse, non sembrerà eccessivo affermare che l’attacco della Quarta Sinfonia di Beethoven finiva per sembrare mahleriano anch’esso, forse perché ne veniva messo in tutta evidenza il sibilo straniante del flauto in acuto contrapposto al mormorio degli archi al grave, che anticipa effetti strumentali di un secolo dopo.
Ecco: Juraj Valčuha è appunto uno di quei direttori capaci di farci udire ciò di cui non ci eravamo forse mai accorti. Dell’intera orchestra, particolarmente rispondente alle sue sollecitazioni, sia consentito un applauso speciale al primo oboe, Paolo Grazia, per i raffinatissimi fraseggi con cui ci ha rapiti.
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
La sua Missa “Vestiva i colli” in prima esecuzione moderna al Roma Festival Barocco
A Ravenna l’originale binomio Monteverdi-Purcell di Dantone e Pizzi incontra l’eclettico Seicento di Orliński e Il Pomo d’Oro