Basta con il minimalismo

Al Festival del Maggio Musicale Fiorentino il ContempoArtEnsemble diretto da Vittorio Ceccanti esplora composizioni di Reich, Adams, Glass, Herrmann

ContempoArtEnsemble - Teatro del Maggio
Foto di Michele Monasta
Recensione
classica
Firenze, Teatro del Maggio
ContempoArtEnsemble
21 Maggio 2019

Ascoltando il ContempoArtEnsemble proporci capolavori della produzione di compositori americani che vanno dal 1960 al 2007 viene da pensare che l’etichetta minimalista – anche se un’estetica minimalista è storicamente collocabile e riconosciuta – andrebbe almeno ridiscussa.

Soprattutto per il suo impiego, perché in Europa, autocelebrandoci come unici depositari di un idioma musicale valido, la si usa ancora, in una logica culturalmente discriminatoria, per isolare generazioni di autori. Se è vero che la musica colta nordamericana è giovane, un proprio rinascimento e relativo riconoscimento di un idioma nazionale è collocabile nei primi anni del Novecento con Ives, è anche vero che il suo sviluppo, che fa riferimento soprattutto a culture musicali extraeuropee (è questo il peccato originale?), è ricco di grandi e originali personalità, del quale il movimento minimalista ne è un tratto altamente significativo. 

In realtà al Teatro del Maggio sono bastati, in un ascolto libero da pregiudizi, i cinque minuti d’apertura di Duet per due violini solisti e orchestra d’archi (1993) di Steve Reich per capire di essere di fronte a grande musica. Pur dentro un senso compositivo molto razionale, il compositore americano riesce ad affascinare attraverso lo sfasamento progressivo di cellule tematiche, in un processo in divenire che accumula tensioni, fa godere dei dettagli, dei colori, del disegno complessivo dell’opera. In Duet sono a fuoco i due violini che si rincorrono, si sfiorano, si superano, si affiancano, si allontanano. Mentre l’orchestra con ondate spande uno sfondo denso e mobile, l’intreccio risulta esaltante, sviluppa un andamento danzante, dal sapore naturalistico.

Shaker Loops per orchestra d’archi (1978/83) di John Adams è un’opera complessa, stratificata, multi-tematica, possiede una propria forza spirituale che si sviluppa in un carattere discorsivo quasi sinfonico con qualche tentazione romantica. Il costante, ricco suono collettivo degli archi si articola tra accelerazioni, improvvisi spazi meditativi e silenzi, l’andamento percettivo viene sempre rimesso in discussione dai ciclici cambi di ambiente, lasciarsi andare significa viaggiare in mondi diversi. Adams è probabilmente il compositore che meno subisce il feticcio della ripetizione, certo la usa ma la modifica, la dilata, l’arricchisce in soluzioni compositive, in impasti di grande fascino. Il finale che sembrerebbe prospettarsi tellurico con la potenza di violoncelli e contrabbassi, si stempera invece in un quasi silenzio, un pianissimo di poesia. 

ContempoArtEnsemble
Foto di Michele Monasta

La seconda parte del concerto è dedicata al rapporto tra musica e cinema. Philip Glass è colui che si è rapportato di più nella sua sterminata produzione con teatro, danza, cinema. Con Suite from “Dracula” (1998) composta per il superclassico Dracula di Tod Browning (1931) nella versione per pianoforte e orchestra d’archi di Michael Riesman (2007) si entra nel mondo del più multimediale dei minimalisti. Orfana delle immagini la composizione scorre tra quadri staccati, a volte descrittivi, a volte altamente lirici. I subito riconoscibili impasti ritmici e sonori, i colori, i movimenti delle corde, raccontano, drammatizzano, in un pragmatismo tipicamente americano di grande efficacia emotiva. Il pianoforte gioca un ruolo tutto interno allo sviluppo tematico, spesso lo percorre con cascate accordali, a volte si muove all’unisono con le corde, praticamente non è mai solo se non in qualche attacco. L’assenza delle immagini e relativo sviluppo narrativo drammaturgico rendono la suddivisione in quadri particolarmente meccanica, ma l’opera mantiene comunque una spiccata vitalità comunicativa.

Mancano le immagini anche per Psycho: A Short Suite for String Orchestra di Bernard Herrmann (1960) composta per il capolavoro di Alfred Hitchcock, ma la forza della musica è così trascinante che le evoca in modo prepotente. Le corde ti trascinano dentro l’angosciosa tensione del film, nei suoi sofisticati meccanismi psicologici, l’agghiacciante ostinato dei violini nella famosa sequenza della doccia mette i brividi addosso, i cupi contrabbassi ti trascinano nei meandri del terrore. Riviviamo il ritmo dei fendenti, vediamo il sangue che scorre misto all’acqua. Come in un perfetto montaggio cinematografico Herrmann supera un puro descrittivismo a favore di una profonda immersione nell’aspetto mentale e nei meccanismi dello sviluppo dell’azione. 

Sapevamo delle qualità interpretative del ContempoArtEnsemble ma questa volta la capacità di trasmettere emozioni, i dettagli, i colori, suono e trame ritmiche di repertori anche complessi è risultato altamente coinvolgente. Anche quando ci regala come bis un sublime Adagio di Samuel Barber. Vittorio Ceccanti dirige con sobrietà, senso della misura e una asciuttezza che rende tutti i materiali godibili nella loro essenza estetica e comunicativa. Come altrettanto fa il pianista Antonino Siringo che legge Glass con classe e quel giusto distacco dal retrogusto molto americano.

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