Che musica fanno i Tres Coyotes di John Paul Jones?

Al Torino Jazz Festival la prima del nuovo gruppo di John Paul Jones, tra delusi e perplessi

Tres Coyotes - Torino Jazz Festival
Recensione
oltre
Conservatorio Verdi, Torino
Tres Coyotes
04 Maggio 2019

C’era una certa curiosità per la presenza al Torino Jazz Festival di John Paul Jones, che fu bassista dei Led Zeppelin e session man in un periodo della storia della musica vivace il tanto che basta da garantire un sold out quasi immediato nella non gigantesca sala del Conservatorio Verdi (e da attirare una piccola folla di nostalgici in t shirt ZoSo nascosta sotto la giacca). 

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La curiosità era soprattutto legata al fatto che questo nuovo progetto di John Paul Jones (che negli ultimi ha ridotto la sua attività più visibile, dopo gli ultimi botti con Them Crooked Vultures e Seasick Steve) era piuttosto misterioso. Nel senso che nessuno aveva ben chiara la musica che avrebbero suonato i Tres Coyotes, né YouTube o altro veniva in soccorso.

Da una parte, il nome, la presenza in line up del mandolino (che John Paul Jones pure suonò con gli Zeppelin, con risultati di un certo rilievo) e la foto promozionale con tanto di vagone ferroviario sullo sfondo con scritto New Mexico faceva sognare ai fan ottimisti paesaggi da Americana, magari un po’ friselliani, magari alla Calexico…

E i fan, si sa, sono sempre ottimisti.

I critici, al converso, sono scettici e sanno che la vita e crudele e li deluderà.

Tres Coyotes - John Paul Jones
Sognando la California...

Personalmente, ho cominciato a fiutare il pericolo sul programma di sala, anche se ci ho creduto fino all'ultimo.

Intanto, perché evidentemente il programma di sala stesso non aveva una chiara idea di che musica si sarebbe suonata di lì a poco («In un mondo dove vengono edificati muri per limitare le persone i Tres Coyotes vogliono che la musica rimanga uno spazio aperto». Ok, siamo d’accordo). E poi per la biografia dei tre canidi in questione: Anssi Karttunen, che ha suonato in effetti con il gotha dei direttori e dei compositori contemporanei, era definito «un violoncellista di talento, a suo agio con i classici e con la musica contemporanea» (come dire: non sappiamo che cosa farà, tra le due cose); il pianista Magnus Lindberg era semplicemente, con un overstatement davvero poco sabaudo, «un compositore tra i più apprezzati in Europa» (sì, insomma, ha fatto cose importanti, non chiederci quali ma importanti). E infine naturalmente «il polistrumentista John Paul Jones, un membro fondatore dei Led Zeppelin. Serve altro?».

No, non serviva altro, almeno fino a quando la musica non è partita.

La prima impressione è di tre tizi che si stanno studiando, improvvisando ciascuno per conto suo e creando un tappeto dissonante e vagamente inquietante. Il basso è molto avanti nel mix (sudditanza psicologica del fonico? Scelta estetica?), il che fa presagire che di lì a poco John Paul Jones metterà giù una tonica e partirà il groove. 

Non succederà.

In effetti, per un uomo che ha fatto del punto forte della sua carriera il mettere le toniche al punto giusto e il comporre riff dal groove letale, John Paul Jones per la prima ora di concerto si astiene meticolosamente dall’una e dall’altra cosa. Nel secondo “brano” passa al mandolino, con cui gigioneggia con un suono, tra l’altro, abbastanza sgraziato. 

Ma non pensate che sia il solito caso del musicista pop che cerca di stare al passo con i colleghi che fanno la musica “seria” e si brucia, o al contrario della classica mossa interpretativa dello «eh ma è musica contemporanea / è improvvisazione, non la/lo capisco…». 

In realtà, anche quello che gli altri due coyote propongono è ampiamente fuori dai criteri del "bello" (e fuori tempo massimo) per queste tradizioni: un repertorio di gesti, di soluzioni, di approccio allo strumento che suonano davvero vecchi, sia che li si legga con la lente della classica contemporanea (qui e là compaiono anche degli spartiti, ma non è chiaro cosa sia scritto e cosa improvvisato) sia con la lente del jazz e della free improvisation. Karttunen fa su è giù sulla tastiera del contrabbasso in uno scialo di glissandi che viene voglia di dirgli di stare un po’ fermo con la mano e scegliere una nota. Lindberg qui e là prova a pure a preparare il piano. I critici sbadigliano. I fan tiepidi sonnecchiano. I fan duri e puri ci credono, e prorompono in «UUUUH!» di incitazione quando John Paul Jones prende il microfono  e spiega la storia del progetto Tres Coyotes, e di quanto si divertono a suonare. 

Dopo un brano su visual («Groundflame» di Muriel von Braun, fotografie di stracci e nastri appallottolati, di grande suggestione) e alcuni momenti di ottimismo sparsi, i tre spariscono. Sono passati circa 45 minuti, si diffonde la voce che il concerto è finito, e grosse espressioni a punto interrogativo si avviano verso l’uscita. Certo, si improvvisa senza rete, può andare bene e può andare male... Ma la delusione è palpabile

In realtà c’è una seconda parte, che – in effetti – riscatta parzialmente la prima, se non altro perché John Paul Jones comincia a suonare veramente il basso, e appare più libero: a un certo punto, per dire, si sente chiaramente una tonica, e verso la fine si riesce addirittura a ondeggiare la testa a tempo. Emerge qui e là quel bel suono pieno che è il suo marchio di fabbrica, si mette a pasticciare con gli effetti e ne cava fuori glitch e risonanze strane. Insomma: si mette a suonare veramente. A un certo punto si siede anche al pianoforte e, dopo un’introduzione a pedale abbassato dal sapore un po’ etereo-ECM, si getta in una sezione percussiva di grande impatto, accompagnata dagli strappi del violoncello. Cresce il volume, e anche l’interesse del pubblico…

Poi, come si era rientrati, si riesce, con la faccia a punto interrogativo, e canticchiando:

... che no, non è stata suonata.

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