Quel treno per Manon
Milano: applausi per il pucciniano Chailly, non convince la regia "ferroviaria" di Poutney
L'ultima volta di Manon Lescaut alla Scala è stata ventun anni fa (Riccardo Muti, regia di Liliana Cavani), tocca ora a Riccardo Chailly riproporla con la messa in scena di David Pountney. Non si tratta però della consueta versione, perché nell'ambito del percorso pucciniano che il direttore segue via via nei cartelloni del teatro, viene eseguita la stesura originaria, nata a Torino nel 1893 (Chailly la diresse già all'Opera di Lipsia nel 2008 con la regia di Giancarlo Del Monaco). Le differenze che saltano all'orecchio sono sostanzialmente due: la chiusura del primo atto col coro protagonista (avulso dall'azione, commenta come in un'operetta) e la splendida aria di Manon moribonda del quarto atto con la coda sinfonica. Gli altri rispristini sono probabilmente percebilili solo con la partitura sott'occhio. Filologia a parte, l'esecuzione scaligera ha confermato come il maestro milanese sia il più autorevole interprete di Puccini, per la cura e l'amore che testimonia per il compositore, ma soprattutto perché fa affiorare tensioni sotto traccia e riferimenti storici, fondamentali alla comprensione dell'opera. Col risultato di un ascolto mai ovvio e sempre all'erta. Anche grazie a un'orchestra in ottima forma, controllatissima e dai contorni netti. Il che ha finito per sottolineare come, dopo lo splendido preludio del terzo atto (Chailly ha giustamente dato rilievo alle sonorità e agli echi wagneriani), Manon prenda il volo rispetto ai primi due atti.
La compagnia di canto è stata di buon livello, Maria José Siri nelle vesti di protagonista ha mostrato la giusta partecipazione emotiva e padronanza vocale, meno convincente il Des Grieux di Marcelo Álvarez, legnoso e assertivo più che melodico, mentre Massimo Cavalletti (Lescaut) è parso il più pucciniano del cast, bene Carlo Lepore (Geronte) e Marco Ciaponi costretto nelle parti di Edmondo, del maestro di ballo e del lampionaio sempre con lo stesso costume, che ne fa una specie di onnipresente burattinaio della vicenda.
La scenografia firmata da Leslie Travers ambienta l'azione in una stazione ferroviaria fine Ottocento. I reperti di archeologia industriale funzionano perfettamente nel primo atto con l'andirivieni della locomotiva fumante e nel quarto con le campate di ferro disgregate e gli orologi sprofondati nella sabbia (un paesaggio alla Dalì o alla Magritte), assai meno nel secondo coi vagoni di lusso che si spostano ogni tanto di lato, la poltrona ginecologica di velluto per le perversità di Geronte, le ballerine con parrucche a forma di torta per ricordare che il quel luogo dovrebbe svolgersi un ballo incipriato settecentesco. Più ovvio il terzo atto col profilo della nave e le deportate chiuse in carri bestiame. Tali scenari, secondo la regia di David Pountney, sono frutto di un flashback di Manon morente su un carretto in mezzo al deserto, anche Des Grieux ne fa parte perché lei è sola e lo evoca disperata. A complicare la faccenda intervengono di tanto in tanto anche nove Manon di età diverse, dall'infanzia alla giovinezza, sognate dalla protagonista e insidiate dal fratello prosseneta (dà loro continuamente delle caramelle per tenerle buone o forse per ottenere dell'altro, perché aleggia il sospetto che sia anche incestuoso). La più matura di queste controfigure, la fanciulla che innamora Des Grieux, finge addirittura di cantare in playback con la voce di Maria José Siri e fa immaginare che fra il primo e il quarto atto siano passati almeno vent'anni per giustificare il ben diverso aspetto del soprano. Un raffronto poco gentile nei suoi confronti.
Al termine della serata grandi ovazioni per Chailly e per tutto il cast, mentre sonorissimi buu all'indirizzo del regista, che forse a causa dell'agitazione è caduto nella buca del suggeritore, per fortuna senza farsi male.
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