Ultraschall Berlin: ricognizione sul contemporaneo

Il festival berlinese alla ventesima edizione

Sèverine Ballon
Sèverine Ballon
Recensione
classica
Berlin
Ultraschall Berlin
20 Gennaio 2019 - 23 Gennaio 2019

Il festival Ultraschall Berlin, giunto alla sua ventesima edizione, è una delle non poche kermesse berlinesi interamente dedicata alla contemporaneità. Rispetto all’approccio metacritico e ‘allargato’ verso l’esperienza musicale odierna portato avanti da MaerzMusik, o al focus sul teatro musicale di Infektion (promosso dalla Staatsoper), il taglio di Ultraschall si attiene a una formulazione se vogliamo austera, ma ampiamente informativa su figure e orientamenti: concerti da camera e sinfonici; poco multimedia – l’elettronica proposta nel ruolo di strumento d’elaborazione del suono; pochi ‘classici della nuova musica’, che d’altronde in Germania trovano posto molto più regolarmente nelle programmazioni stagionali o in festival generalisti come il Musikfest berlinese primo-autunnale. D’altronde, Ultraschall è promosso da due soggetti radiofonici – Deutschlandfunk Kultur e RBB Kulturrado – e l’assetto della sua proposta è perciò coerente alla loro vocazione acusmatica.

L’occasione sembra dunque propizia per una ricognizione sullo stato dei linguaggi e delle estetiche nella ricerca compositiva, perlomeno da questa prospettiva berlinese: dei 14 concerti (di cui due sinfonici), ne sono stati seguiti undici, per trentasei autori, molti attivi nel panorama tedesco e berlinese, che però – com’è noto – è di fatto un panorama dagli apporti estremamente internazionali. Naturalmente, sforzarsi di tracciare una sua reductio ad unum sarebbe inutile, oltre che lesivo delle personalità di ogni compositore e miope verso le differenze generazionali – si sta parlando di generazioni estetiche – dei brani ascoltati. Tuttavia, per l’ultima generazione, un’inclinazione predominante sembra emergere: se la precedente ha spesso battuto la strada della solidificazione della materia sonora informelle degli anni Sessanta-Settanta in figure, in profili del suono – locali o globali – atti a guidare l’ascolto attraverso fasi più o meno statiche/dinamiche e paratattiche/sintattiche, l’ultima è tornata a volgersi allo scandaglio della materia sonora; sono le sue inflessioni interne, o il perimetro complessivo del materiale ritagliato, quali istanze unitarie di partenza, a fornire le articolazioni poi dispiegate nell’organismo musicale e nella sua esistenza temporale. Nelle oscillazioni delle estetiche, un approccio del genere – probabilmente alimentato dal quasi immancabile transito formativo all’Ircam o ad altri centri avanzati di ricerca tecnico-acustica condivisa – poteva prevedersi, quale reazione a una certa ‘estroversione’ figurale; qualche comportamento figurale è, ovviamente, conservato ancora nella giovane generazione, anche nella radicalismo dell’uni-figuralità portato avanti anni fa dal cosiddetto saturismo (la saturazione dello spazio sonoro, quale unica figura in gioco). Gli ascolti berlinesi hanno mostrato da un lato un chiaro superamento di questa posizione (forse il solo behind the apples di Yiran Zhao, nella auscultazione della fonesi entro la cavità orale dei sei performer dei Neue Vocalsolisten, le si poteva ricondurre), e dall’altro non sono somigliati affatto a un ‘nuovo informale’: il pensiero aperiodico, paradigmatico, aperto-combinatorio, categoricamente allergico alla ripetizione scoperta e alla direzionalità formale, non è tornato a dettare sempre tutte le leggi dei comportamenti sonori; nel delibare il suono e proporne le svariate nuances, la ripetizione evidente – con tutte le sue possibili sfumature – è anzi una strategia spesso battuta, forse per risolvere alla spiccia progetti di ampia estensione temporale, tornata a quanto pare di moda. Se l’adozione di percorsi sonori per definizione aperti, non-direzionati e sempre variati, non ha salvato sempre né salva oggi dallo scacco tecnico-poetico, l’indulgere sulla ripetizione porta tuttavia al paradosso della rivincita della figura – peraltro assai basica – sulla materia, e quindi a una ridondanza fatale: la materia sonora, pur con tutte le sue infime mutazioni, regge a stento quelle strutture e quelle durate, nonché un procedere per accostamento di situazioni che perde alla lunga la sua ragione dinamica, prima che la sua cogenza.

E’ stato il caso, ad esempio, di Zwischen den Sternen di George Mason, un vasto affresco per grande ensemble che proponeva certo episodi fascinosi, ma che nel suo protrarsi per oltre mezz’ora e riavviarsi più e più volte daccapo ha finito col risultare estenuante; o di Recherche sur le fond di Charlotte Seither, che ha proiettato la generazione di morbide inflessioni timbriche dell’orchestra su un arco dinamico similare nella grande e nella media forma, consumando però ben prima della fine il suo potenziale; o – nello stesso concerto – in  Archipel di Joanna Wozny, che ha imposto a una limitata paletta sonora tutto sommato scabra e rappresa in grumi uno stiraggio e una fissità circolare per meri motivi simbolici (l’immagine personale della visione interiore della Vergine Maria all’Annunciazione); o ancora in an ocean beyond earth di Liza Lim, una mini-installazione promettente, nel far specchiare il violoncello solo (la bravissima Séverine Ballon) in un violino posto di fronte e collegato all’altro strumento da sagole eccitatrici delle corde di entrambi, salvo poi risultare squilibrata negli esiti sonori delle sagole a corde vuote e della ‘ordinaria’ tecnica arco sul violoncello (a favore di quest’ultima). 

Sul piano dell’equilibrio tra materiali, loro rotazioni-specularità, e durata, un ‘vecchio’ pezzo di Feldman (Four Instruments, 1975, per tre archi e pianoforte), nonostante l’abituale assorta meditazione, è riuscito ancora a dare una lezione, perfino a una sua allieva storica, Bunita Marcus, il cui Music for Japan– insieme il gemello Music for Europe di Naomi Pinnock – per ensemble è risultato più statico del modello. Il resto del programma dedicato al quartetto con pianoforte è sembrato dimostrare come il confronto con una formazione ‘classica’ sia tornato a influenzare il percorso compositivo: la fascinosa qualità atmosferica della musica neo-minmalista di Bryce Denner emergeva meno in El Chan; le articolazioni sonore di Gravitydi David P. Graham transitavano spesso per una evidente figuralità quasi-tematica; il Cuarteto con piano di Jesús Torres si è rivelato un patchwork di luoghi sonori del camerismo virtuosistico novecentesco, distribuiti in quattro movimenti allusivi a quelli del genere tradizionale. Nel concerto del duo Mixtura, il lavoro sul suono dei tre compositori era chiamato a fare i conti più sostanzialmente con le caratteristiche dei due strumenti, la monodicità dello schalmei e le possibilità polifonico-accordali (ma senza d’uscita dal sistema temperato) dell’accordeon: la presenza di una voce, e di un testo da intonare, ha consentito loro di declinare in modi opposti questa ricerca, quasi in direzione espressionista per 9 Gesängedi Annette Schlunz, in modo riflessivo per De Natura et Origine di Dániel Péter Birö; la voce era assente in Madrigal di Eres Holz, ma la relazione tra i due strumenti restava bloccata perlopiù in un comportamento omoritmico, entro il quale la melopea dello schalmei ricordava uno strato vocale spesso irrelato – per via dei glissandi – all’altro strumento.

L’adozione di una logica combinatoria (Etüdienbuch zu Diabelli di Michael Pelzel, Die Drei di Micharl Beil, entrambi brani vocali) si è rivelata ancora strategia tutto sommato efficace, come quella di puntare sull’aforisma, sulla subitanea consumazione di materiali e figure in brevi archi temporali: molto convincenti sono apparsi, sotto questo aspetto, Solicitations (per quartetto d’archi) di Sival Eldar, e Zaubersprüche di Valerio Sannicandro, un lavoro che riconfigura la relazione spaziale tra i sei performer vocali come mezzo di articolazione-individuazione formale, più che come mezzo di spazializzazione del suono, fermo restando che esso è movimentato e decostruito anche con l’aiuto di appendici risonanti e rotazioni della direzione d’emissione.

Alcuni dei lavori hanno trovato la loro ragion d’essere nel gesto performativo-sonoro, quale generatore non solo del materiale, ma pure dei capisaldi dell’assetto formale. Il lavoro più interessante è risultato Ultimi fiori per violoncello di Francesca Verunelli: a una prima parte tutta basata su una tirata d’arco quasi isocrona e in posizioni tali da interferire con la sinistra, succedeva un progressivo ampliarsi dei gesti-modi d’eccitazione del corpo sonoro, conducendo a una sorta di ‘catastrofe della forma’. L’interprete – la Ballon – ha proposto pure un suo delicato, convincente lavoro (Inconnaissance), e due brani di Ashley Fure (Wire and Wool, con elettronica, estremamente materico) e Timothy Mc Cormack (Drift Matter, di estetica sonora simile, ma meno compatto del precedente). Il gesto messo in campo da Milica Djordjevic in Pomen II era più estroverso, ma pure più semplificato e meno strutturato nelle dinamiche formali.

Decisamente intrigante invece il lavoro sul suono condotta da Chaya Czernowin in Ayre: Towed through plumes…: i tromps-l’oreille timbrici non vi sono apparsi fini a se stessi, ma inseriti in percorso di trasformazione e combinazione degli elementi strumentali. Nello stesso concerto, se Plekto di Xenakis si è rivelato un brano basato sul principio antifonale, Wheat, not oats, dear. I’m afraid di Johannes Maria Staud si è presentato singolarmente vicino a un principio monodico-eterofonico, in ci una solo linea si trasformava in densità interna. In fin dei conti, hanno fatto un figurone i lavori che scommettevano più radicalmente sulle grandi durate, costringendo l’ascoltatore ad accettare la scommessa di un arcata di quasi un’ora: sia Stries di Bernard Parmegiani, sia Rundfunk di Enno Poppe impiegano sintetizzatori, proprio i cari vecchi synth a tastiera anni-Ottanta; naturalmente, il lavoro di Parmegiani appartiene a quella decade, e presenta tuttora un notevole fascino nelle strutture stratiformi, mentre il recente lavoro di Poppe riesce a condurre bene in quell’arcata i processi di saturazione e di rinnovo delle figure, con esiti travolgenti nella sonorità complessiva.

Un compositore equidistante tra materismo e figuralità può considerarsi Beat Furrer, al quale il festival ha dedicato un quasi-focus: Retour an Dich per trio con pianoforte, Studie II per pianoforte, il vasto III. Streichquartett, hanno confermato una solidità e chiarezza di scrittura nei più diversi assetti temporali, in questi lavori emersa attraverso una prevalenza dell’aspetto figurale.

Non sono mancati i brani appartenenti alla linea dell’eteronomia: il Capriccio per due pianoforti e orchestra di Philippe Boesmans si può ascoltare alla stregua una scorribanda tra luoghi del concertismo virtuoso (le più evidenti reminiscenze erano quelle che portavano a Gershwin) come se fosse fatta girando capricciosamente la manopola del sintonizzatore-radio su diverse stazioni. L’eteronomia della musica di Olga Neuwirth è meno denotata, e riguarda piuttosto l’apparizione di piani sonori differenziati (incidendo/fluidoQUASARE / PULSARE II), ma proprio così determinanti a configurare l’esperienza dell’ascolto. Nel nuovo lavoro di Natacha Diels più lampante era l’accostamento di campioni sonori differenti, anche grazie all’impiego dell’elettronica. In Passwords per sei voci, di Goerge Aperghis, l’eteronomia è solo apparente, dato che il materiale verbale è di fatto l’unico a figurare e a venire ‘musicalmente’ sviluppato nella composizione, portandosi dietro la connotazione del suo valore d’uso nello scambio linguistico; il favore accordato dal pubblico ad Artefacts di Sara Glojnaric, un divertente lavoro vocale corredato di un video allusivo alla comunicazione odierna per slogan, dimostra che in tanta musica ‘assoluta’ l’expanded-media ha buon gioco nell’accattivare il pubblico.

In un punto, i concerti di Ulstraschall sono stati identici, l’ottima qualità degli interpreti: oltre ai già citati Séverine Ballon e Neue Vocalsolisten, la Deutsches Symphonie-Orchester diretta da Sylvain Cambreling, il GrauSchumacher Piano Duo, il Quatuor Diotima, il duo Mixtura col mezzosoprano Hildegard Rützel, il Notos Quartett, l’ensrmble recherche, il trio di synths Lange-Berweck-Lorenz, il Boulanger Trio, l’ensemble Adapter, l’ensemble mosaik. Arrivederci al gennaio 2020, con Ulstraschall Berlin (qualche preview di autori programmati è già disponibile).

https://ultraschallberlin.de/

 

 

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

Madrid: Haendel al Teatro Real

classica

A Roma, prima con i complessi di Santa Cecilia, poi con Vokalensemble Kölner Dom e Concerto Köln

classica

Federico Maria Sardelli e il sopranista Bruno de Sá per un programma molto ben disegnato, fra Sturm und Drang, galanterie e delizie canore, con Mozart, da giovanissimo a autore maturo, come filo conduttore