Mahler visto attraverso la lente schoenberghiana

Roma: la Sinfonia n. 4 eseguita dai Wiener Philharmoniker nella versione cameristica preparata da Stein nel 1921

I Wiener a San Paolo fuori le Mura
I Wiener a San Paolo fuori le Mura
Recensione
classica
Basilica di San Paolo fuori le Mura
I Wiener a San Paolo fuori le Mura
13 Novembre 2018

Il concerto dei Wiener Philharmoniker è fin dall’inizio il fiore all’occhiello di ogni edizione del Festival di Musica e Arte Sacra. E così è ancora, sebbene da qualche anno in qua vengano a Roma in formazione ridotta: ma non è il numero che fa la qualità, perché, siano molti o pochi, suonano sempre meravigliosamente. Il problema è semmai l’acustica dalla sterminata basilica di San Paolo fuori le Mura, che un’orchestra sinfonica riesce in qualche modo a domare, mentre per un piccolo gruppo l’impresa è molto più difficile, quasi impossibile, anche se il suono dei viennesi fa miracoli e si resta a bocca aperta quando un ‘solo’ del primo violino si libra nello spazio immenso come se il musicista fosse accanto a noi.

Questa volta i Wiener Philharmoniker erano tredici, senza direttore, e hanno fatto ascoltare la Sinfonia n. 4 “La vita celestiale”  di Mahler, nella riduzione che Schoenberg fece preparare nel 1921 al suo allievo Erwin Stein per poterla eseguire nei concerti del Verein für musikalische Privataufführungen (Società per Esecuzioni Musicali Private) da lui organizzati a Vienna, che non potevano permettersi un’orchestra di dimensione mahleriana. La serietà di Stein e l’avallo di Schoenberg garantiscono la bontà dell’operazione.

Certamente qualcosa si perde, quel che si ascolta non può rispettare al 100% l’idea di Mahler, ma è come essere guidati ad un’attenta analisi della partitura, che ne metta in rilievo certe linee melodiche così come certi colori aciduli e taglienti e certi ritmi frastagliati, che si sperdono quando sono immersi nella grande orchestra. Il risultato è che il primo movimento, effettivamente infarcito di motivi che riecheggiano la musica di consumo dell’epoca, vede accentuato un tono da orchestrina di caffè viennese intorno al 1900, anche per la scelta di Stein di evidenziare – per una precisa volontà o per la scarsità dei mezzi a disposizione - la melodia da una parte e il basso dall’altra, a scapito delle voci intermedie, come avveniva in quelle orchestrine, formate in genere da un paio di violini, più eventualmente un clarinetto e/o un flauto, e un contrabbasso. Del secondo movimento viene accentuata la frammentazione del discorso, con le sue frasi spezzate, le cellule melodico-ritmiche di poche note che emergono, si spezzano, si inabissano. Il terzo è una meraviglia, perché la riduzione esalta il suo tono di raccolta pagina cameristica, purissima, essenziale, senza una sola nota di troppo: gli archi predominano, i fiati si aggiungono in modo quasi inavvertibile, amalgamandosi perfettamente alle corde e realizzando un prodigio timbrico, un colore che si potrebbe definire blu, perché questa musica è effettivamente un notturno, dolcissimo e allo stesso tempo straziante. Nel quarto movimento è invece il tono di canzoncina infantile a venir fuori, con quella strumentazione così esile, quasi da strumenti-giocattolo. Mojca Erdmann è bravissima – lo sappiamo – ma è difficile giudicarla in queste condizioni, perché la sua voce di soprano leggero fatica a giungere all’orecchio degli ascoltatori.

Gli applausi non sono mancati, tutt’altro. Ma, parallelamente alla riduzione dell’orchestra, si sono un po’ ridotti rispetto agli altri anni. 

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