Se Cimarosa si traveste da Pirandello
Al Festival di Montepulciano L'impresario in angustie di Cimarosa
Si dava venerdì al Cantiere di Montepulciano come titolo inaugurale, al Teatro Poliziano, L’impresario in angustie di Domenico Cimarosa, tipica operina “metateatrale” su testo di Giuseppe Maria Diodati. Un lavoro nato al Teatro Nuovo di Napoli nel 1786, che all’epoca circolò moltissimo con varie aggiunte e rifacimenti (se ne dava l’edizione del 1791 a cura del musicologo Enrico Massa) e di cui persino Goethe, che l’aveva visto a Napoli, approntò una versione per il teatro di Weimar. Pur non avendo la partitura le ricche fragranze comico-sentimentali dei capolavori cimarosiani, né tanto meno il libretto la verve elegante o lo spasso farsesco dei capolavori del genere metateatrale, da Prima la musica poil eparole di Casti-Salieri alle Convenienze e inconvenienze teatrali del giovane Donizetti, l’operina ne condivide perfettamente le maglie di genere, focalizzandosi sulla rivalità fra le canterine e l’affaccendarsi di maestro di cappella, librettista e, in questo caso, impresario, pessimi mestieranti, e sulla parodia dell’opera seria che si esplica in una non meno tipica scena di prova. In questo caso l’oggetto della parodia, ciò di cui si fa la caricatura, è la vicenda di un’ipotetica opera fra le tante nate dalla nobilissima costola dell’Andromaque di Racine (dall’Astianatte di Haym-Bononcini fino addirittura all’Ermione di Tottola-Rossini), e al centro della satira metateatrale c’è appunto il goffo maltrattamento che di trama e personaggi fa il poetastro teatrale Don Perizonio Frattapane (ruolo in gran parte dialettale secondo l’uso napoletano e non a caso nato per il celebre buffo Gennaro Luzio), raffazzonando versacci come “Anima fella e cotta, a Pirro questo perro”, o “Se tu non ti mollifichi, Andromaca pettegola”. Cose riconoscibilissime dal pubblico di allora, ma sfuggite alla regìa di Caterina Panti Liberovici, a cui è sembrato più interessante trattare l’innocente lavoro cimarosiano come una metafora pirandelliana del teatro come fallimento (giacché qui l’impresario pianta in asso tutti quanti) e tragica tensione fra testo e messinscena, fra ideale artistico e convenzione, fra vita teatrale e mortale irrigidimento dell’opera chiusa in se stessa, inventando al riguardo un ruolo parlato (Cristian Maria Giammarini) di regista-demiurgo tormentato o, a ben vedere, non meno caricaturale nelle sue protagonistiche isterie, fra sciarpa rossa svolazzante e copione sbattuto per terra, e facendo degli attori-cantanti delle marionette che prendono vita dal demiurgo, in ogni caso delle creature spettrali e un po’ inquietanti, assolutamente in barba alla musica. Insomma un fraintendimento di fondo che faceva a pugni con la partitura… a meno di leggerlo come un moderno Teatro alla Moda alla Benedetto Marcello, in cui si fa la parodia dei capricci non delle canterine e dei castrati ma, appunto, dei registi di oggidì, che cercano chissà cosa nel testo-libretto senza capire che nell’opera il Testo vero è la partitura. Ne è nato comunque uno spettacolo che nell’accurata geometria dei movimenti e in alcune invenzioni rifletteva il mestiere e l’esperienza della regista-drammaturga, sorretto dalla scrupolosa preparazione dei giovani cantanti (Dioklea Hoxha, Silvia Alice Gianolla, Vittoria Licostini, Francesco Samuele Venuti, Claudio Mugnaini, Claudio Zazzaro, Stefano Bernardini), e dalla consueta energia direttoriale di Roland Boër a capo della giovanissima Orchestra Poliziana.
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