L’universo di dolore dei “Soldati” di Zimmermann
All’Opera di Colonia torna Die Soldaten in un nuovo spettacolare allestimento firmato da la Fura dels Baus e con la direzione musicale di François-Xavier Roth
Ci vollero sette tormentati anni fra la commissione dell’Opera di Colonia nel 1958 e la prima esecuzione di Die Soldaten nel febbraio del 1965, sette anni durante i quali l’opera, ritenuta ineseguibile nella prima versione, fu rivista e aggiustata dall’autore Bernd Alois Zimmermann. E fu un grande successo. Il successo si ripete anche per questa nuova realizzazione dell’opera di Zimmermann prodotta dalla stessa Opera di Colonia in esilio alla Staatenhaus. Che si tratti di uno spazio non teatrale non è certo un ostacolo ma piuttosto uno stimolo per le menti creative della Fura dels Baus chiamate a curare il nuovo allestimento. Dopo gli spettacoli di strada degli esordi, il collettivo catalano ha infatti costruito la propria fama su spettacoli dal forte segno visionario realizzati molto spesso in spazi non ortodossi (incidentalmente, proprio negli spazi della Staatenhaus produssero la prima assoluta del colossale Sonntag aus Licht di Stockhausen). Da questo punto di vista, con la sua trama frammentaria e antinaturalista, la rottura frequente della linearità narrativa e momenti di autentica trasfigurazione dell’azione in musica, Die Soldaten è opera “furera” d’elezione. L’anticonvenzionalità del lavoro di Zimmermann si traduce in una scelta radicale nell’organizzazione spaziale dallo scenografo Roland Olbeter, che piazza orchestra e spettatori su sedie girevoli all’interno di una passerella circolare elevata destinata all’azione e priva dunque di un centro. E priva di centro è anche l’azione che il regista Carlus Padrissa vuole in movimento continuo amplificato dalle plastiche videoproiezioni, più vicine all’installazione artistica che a un’idea scenografica, realizzate da Marc Molinos e Alberto De Gobbi. C’è, e nemmeno troppo implicita, l’idea di una paradigmatica universalità nell’inesorabile discesa agli inferi della protagonista Marie forzata dalla violenza tutta maschile dei soldati, rappresentati nel gusto visionario del costumista Chu Uroz come un grottesco defilé di divise di ogni tempo, mentre invece la scelta per la “bambola” Marie e il suo circolo affettivo risponde a coordinate ottocentesche virate in dettagli grotteschi. All’efficacia della realizzazione visiva, che si fa non poca fatica a seguire nel suo incedere vorticoso, si aggiunge quella musicale di ottimo livello, firmata con chiarezza cartesiana dal direttore François-Xavier Roth. Roth naviga sicuro nel mare magno della strumentazione spinta su parossismi sonori e una disposizione spaziale che non facilita il suo lavoro. Formidabile è la Gürzenich-Orchester che traduce l’articolato lessico musicale di Zimmermann in suoni possenti ma mai informi. Della lunghissima locandina di solisti, ai quali Zimmermann chiede davvero l’impossibile, andranno citati almeno la protagonista Maria di un’emotivamente partecipe Emily Hindrichs, Nikolay Borchev, uno Stolzius di disperata umanità, Martin Koch, un Desportes particolarmente odioso, Frank Van Hove, Wesener il padre di Marie, Sharon Kempton, una stralunata Contessa de la Roche, e Wolfgang Stefan Schwaiger, il capitano Mary. Da segnalare anche la regia del suono di Paul Jeukendrup e dei tecnici del suono che riescono nel miracolo di non mortificare la spazialità del suono malgrado le non poche difficoltà ambientali.
Il pubblico numeroso non ha disertato in nessuna delle sei repliche in cartellone. Grande successo.
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