Don Pasquale e l'incubo della madre

Scala: successo per l'opera di Donizetti con la direzione di Chailly e la regia di Livermore

Don Pasquale
Don Pasquale
Recensione
classica
Teatro alla Scala, Milano
Don Pasquale
03 Aprile 2018 - 04 Maggio 2018

Don Pasquale, secondo e ultimo impegno operistico di Riccardo Chailly nella stagione scaligera in corso, mancava dal cartellone dal 1994 (Muti sul podio, mentre l'edizione del 2012 era dell'Accademia della Scala) e tiene conto della revisione fatta da Piero Rattalino nel 1971 del libretto e della partitura (lo san bene soprano e tenore nell'affrontare i sovracuti) e dell'intenzione dello stesso compositore di staccarsi dal cliché della commedia dell'arte, col vecchio innamorato della ragazza, tant'è che volle in scena degli abiti a lui contemporanei. Ad attualizzare ancor più la trama ci pensa ora la regia di Davide Livermore (complici le scene firmate con Giò Forma e i costumi di Gianluca Falaschi), che ambienta l'azione in una Roma anni Cinquanta-Sessanta, citando il cinema italiano dell'epoca, segnatamente Roma di Fellini e Il sorpasso  di Risi con l'Aurelia spider con la quale scorazzavano Gassman e Trintignan e che ora con bell'effetto vola con la scanzonata Norina sopra la città filmata in bianco e nero. Ma senza che la commedia prenda troppo la mano al regista, che ben sottolinea i momenti drammatici facendoli nettamente affiorare dalla beffa, come l'assolo di tromba del secondo atto e la disperazione di Ernesto, o la funerea cupezza del protagonista, la sua umiliazione per lo schiaffo ricevuto dalla giovane moglie. Moltissime le invenzioni spettacolari, ma talvolta farraginose come la sfilata nella casa di mode che grava sulla leggerezza della partitura, il continuo roteare su se stessa della casa del protagonista, le nuvole grigie e tempestose che incombono dal cielo. C'è un accumulo in eccesso, come per un incontrollabile horror vacui. In compenso la temuta coreografia che accompagna l'ouverture è risultata riuscitissima e serve anche da filo conduttore della vicenda, tratta della presenza ingombrante della madre di don Pasquale che gli ha sempre impedito di avvicinare una donna. Eliminata la bara del suo funerale, la vecchia col cappello nero ricompare in ripetuti flashback, interviene sul figlio bambino, adolescente e uomo maturo, riappare nel quadro in salotto (fa anche smorfie) e ogni tanto attraversa la scena come un fantasma, l'opera potrebbe davvero avere come sottotitolo Il trionfo della madre morta.

Per questa edizione Chailly ha ridotto di molto l'organico, specie negli archi, allo scopo di ottenere sonorità trasparenti, scattanti e massima compattezza di tutti i settori. Obiettivo raggiunto, anche se in qualche momento l'orchestra è parsa come ingessata dalle esigenze del palcoscenico, che hanno rischiato di mortificarne la vitalità. Estrema comunque la cura del rapporto coi cantanti. La migliore è stata senza dubbio Rosa Feola, una Norina ideale per duttilità vocale e spiritosa gestualità. Ambrogio Maestri si è valso della sua lunga esperienza come Falstaff per impersonare il vecchio beffato, ha ben calibrato cattiveria, ingenuità, disperazione, controbilanciando così qualche appannamento di emissione. René Barbera non ha avuto difficoltà ad affrontare il personaggio di Ernesto, riuscita l'ardua serenata dell'ultimo atto, tuttavia la sua è voce prestante ma poco morbida. Mattia Olivieri è stato un decoroso dottor Malatesta, tavolta troppo impegnato in controscene di forzata comicità.

Lunghi applausi per tutti a fine serata, con particolare affetto per Maestri in riconoscimento della sua ammirevole carriera verdiana.


 

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