Orfeo alla Scala canta in francese
Milano: Orphée et Euridice di Gluck con Florez e Mariotti
Tutto diventa coreografia in questa edizione dell'Orphée et Euridice, importata dal Covent Garden, nella versione francese per la prima volta alla Scala. I registi Hofesh Shechter e John Fulljames hanno piazzato l'orchestra in palcoscenico su una pedana molto arretrata, che può salire, creando una sorta di galleria sottostante, o spronfondare fino a sparire quasi del tutto. Tuttavia, se con l'organico in alto i suoni arrivano in sala già privi delle armoniche basse, a livello del palco o sotto, l'ascolto è ancora più penalizzato. Nel terzo atto soprattutto, perché il pannello obliquo che sta sopra si apre e diventa orizzontale provocando un effetto "cappa da camino" che si porta via gran parte del volume sonoro.
Ciò detto gli spostamenti dell'orchestra diventano parte integrante dell'azione scenica in modo suggestivo, riuscita l'idea di mostrare gli strumenti solisti, l'arpa in proscenio, i due flauti e l'oboe suonati in piedi dai musicisti. L'edizione francese, che invece del castrato o del contralto, prevede come protagonista il tenore sembra fatta apposta per Juan Diego Flórez, forse l'unico al mondo in grado di affrontare con assoluta disinvoltura Orphée. È davvero una gioia sentirlo e vederlo assoluto mattatore in scena. La sua è una prova di grande e continuo impegno. Bravissima Fatma Said (già ottima Pamina alla Scala) nel completo d'oro di Amour, un'aggraziata e spiritosa messaggera degli dei, mentre Christiane Karg è un'Euridice più che decorosa. Michele Mariotti sul podio è stato efficacissimo, rispettoso dello stile di Gluck ma senza preconcette chiusure alla contemporaneità, chiarezza assoluta e grande controllo. Non solo, ha superato brillantemente la difficoltà di avere i cantanti alle spalle, che hanno dovuto accontentarsi di seguirne il gesto su due grandi monitor posti nella buca dell'orchestra irritualmente vuota.
L'impostazione generale dello spettacolo ha voluto sottolineare la dolorosa parabola dell'elaborazione del lutto da parte del protagonista; all'inizio Euridice in effigie viene cremata e al termine sparisce, smentendo l'happy end del libretto, per ricomparire come fiamma della pira, lasciando solo Orphée, che probabilmente ha sognato tutta la vicenda. È un percorso netto e ben chiaro della regia, tuttavia reso complicato dalla continua presenza del balletto in scena, anche quando non previsto dalla partitura. All'inizio il rituale funebre ha una sua valenza con una gestualità di tipo quasi tribale, a fine spettacolo le ballerine sulla schiena dei ballerini significano chiaramente la difficoltà del distacco, ma nella maggior parte tutto si limita a un agitarsi spastico invadente. Che talvolta pone situazioni non risolte, come nel lungo finale senza più azione con Orphée accucciato di lato in proscenio e Amour impalato in orchestra che non sanno che fare.
A fine serata grandi applausi per tutti, ovazioni per Flórez e qualche buu per i registi.
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