In Fabbrica al Teatro La Fenice
Omaggio ai 100 anni di Porto Marghera nell’apertura della stagione sinfonica della Fenice di Venezia
A pochi giorni dall’apertura della sua stagione lirica con il classico verdiano Ballo in maschera, il Teatro La Fenice inaugura la stagione sinfonica con un’apertura venezianissima. Se la scorsa stagione si aprì nel segno del cinquantenario dell’acqua alta più alta della storia con la novità di Aquagranda di Filippo Perocco, anche quest’anno a Venezia si apre con una novità commissionata dal teatro come contributo al fitto programma di manifestazioni per il centenario della fondazione del complesso industriale di Porto Marghera.
A Fabio Vacchi l’incarico di dare una veste sonora a quattro testi dei “poeti di fabbrica”, che sono quelli del parmigiano Attilio Zanichelli, a lungo operaio alla Bormioli, e del veneto Fabio Franzin, operaio in fabbriche di mobili del trevigiano, e del mestrino Ferruccio Brugnaro, operaio a Porto Marghera e in Consiglio di Fabbrica della Montefibre-Montedison nonché protagonista delle lotte per i diritti dei lavoratori nei caldissimi anni Settanta. Quasi nulla di quelle tensioni si respira nelle quattro liriche scelte per questi Canti di fabbrica affidati al timbro tenorile di Paolo Antognetti, se non nell’alienazione del vivere sradicati dai propri paesaggi sentimentali (come le montagne del Romano Mezzacasa di Brugnaro, “compagno meccanico” duro come le rocce delle sue Dolomiti) e nei riflessi di vite rese ruvide dalla durezza della vita operaia (come quel “grop de spaghi stoposi” che sono diventati i capelli della Marta di Franzin, che da 25 anni leviga cornici con la carta vetrata). Tramontata definitivamente la stagione del compositore engagé, davvero nulla di quelle tensioni sociali si ritrova nel trattamento di Fabio Vacchi, che esalta la dimensione lirica di quei canti in una trama musicale dal tono alto, alla quale non sono estranei modelli mahleriani. I rumori della fabbrica sono trasfigurati in suggestioni timbriche di metalli orchestrali per il metalmeccanico Mezzacasa o nell’ostinato percussivo di “Non racconteremo mai abbastanza” che richiama la ripetitiva serialità della catena di montaggio.
Un salto temporale per il secondo pezzo in programma, che sospende le tensioni del da sempre problematico rapporto fra Venezia e il suo hinterland industriale. Il salto è nella Sanremo del 1965, in pieno delmiracolo economico italiano, per un omaggio a un musicista venezianissimo, più di casa nelle sale cinematografiche che in quelle da concerto. Pino Donaggio regala alla sua città una scintillante versione sinfonica dallo slancio sentimentale, che rievoca quello dei film hollywoodiani, di uno dei suoi più grandi successi: “Io che non vivo (senza te)”, con il testo di Vito Pallavicini affidato al coro del Teatro. Chiude la prima parte del concerto l’ultima scena del prologo dell’Attila verdiano, che vellica un mai sopito ma oramai malriposto orgoglio veneziano con quella profetica chiusa dei profughi aquileiesi nelle paludi lagunari “rivivrai, nostra patria, più superba, più bella della terra, dell’onde stupor”, pronunciata con brillanti accenti eroici da un ottimo Stefan Pop.
Più convenzionale la seconda parte del concerto, interamente consacrata alla Sinfonia n.9 di Antonín Dvořák nell’esecuzione dell’Orchestra della Fenice in gran spolvero diretta, come in tutti gli altri pezzi, dal rodato professionismo di Donato Renzetti. Impressioni e saluti dal nuovo mondo, sguardo fiducioso verso la nuova frontiera e la speranza (illusione?) di un avvenire migliore quando ancora fanno male le ferite di un modello di sviluppo da ripensare.
Teatro gremito, molti applausi.
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