Club to Club, è questo il futuro del pop?
Kamasi Washington vs. Arca a Club to Club 2017, alla ricerca della musica del futuro
Quella del futuro in musica, o del futuro della musica, è una preoccupazione costante di molte categorie di persone, dai giornalisti di musica ai musicisti. A volte, ma non troppo spesso, è un pensiero che tocca anche gli organizzatori di festival e i discografici. Qualche anno fa Club to Club Festival ha circoscritto all’etichetta di Avant Pop il suo campo di interesse, avvertendo (a ragione) i limiti dell’etichetta “musica elettronica”. È una scelta interessante, e stimola a usare il festival torinese come osservatorio sulla musica che sarà, a provare a immaginare cosa ascolteremo tra – 10? 20? 50? – anni.
L’edizione 2017 di Club to Club, del resto, ha il suo fulcro nella retrospettiva sui Kraftwerk – e quale musica più “del futuro” c’è di quella dei Kraftwerk? E cosa c’è di più simbolico di questa epoca retrofuturista che una retrospettiva su una musica del futuro?
Vorrei però concentrarmi su due concerti fra i molti sentiti a Club to Club 2017, di due nomi fra i più chiacchierati del momento: Kamasi Washington e Arca. Due concerti molto diversi, ma che mi sembrano dicano qualcosa di come si può pensare il futuro musicale oggi.
Kamasi Washington
Kamasi Washington arriva a Club to Club sull’onda di uno hype che raramente tange i jazzisti. Il sassofonista di LA viene fuori da quella fucina di talenti che è la nuova scena della West Coast americana – dove, effettivamente, c’è un movimento di artisti (o almeno un raggruppamento, se non un movimento) impegnato a ridisegnare i confini di quella che è la “black music”, da Kendrik Lamar (cui Kamasi deve la sua fama: compariva nel suo To Pimp a Butterfly) a Flying Lotus a Thundercat.
Per quelle strane dinamiche di cui non comprenderemo mai il senso, Kamasi Washington è diventato una specie di profeta del nuovo jazz, in grado di portare il genere al di fuori della cerchia dei jazzofili, in festival di tutt’altra ispirazione (Club to Club ne è un esempio) e a un pubblico giovane. La ragione sta sicuramente nel buon successo di un album di ambizioni grandi come The Epic, e a un’immagine che mescola alla coolness losangelina un bel frullato di misticismo coltraniano, globalismo alla Don Cherry, fricchettonismo cosmico alla Sun Ra e altro ancora. Sulla carta, musica splendida. Su disco, musica – lo ammetto – interessante. Dal vivo – e lo dico consapevole di attirarmi gli strali di buona parte del pubblico delle OGR di Torino – musica noiosa.
«Sulla carta, musica splendida. Su disco, musica interessante. Dal vivo, musica noiosa».
Voglio essere chiaro: la critica a Kamasi Washington non è fatta dal versante del nostalgico del bel jazz di una volta, come a dire “eh ma quelle cose lì le abbiamo già sentite, ci prendiamo un bel disco di Maceo Parker e suona meglio”. E concordo con quanto scriveva Enrico Bettinello intervistando Thundercat, che esiste un nuovo pubblico meno interessato a etichettare come “jazz” o meno la musica che ascolta, e concordo che questo sia un dato positivo. Il problema è che, dal vivo (o almeno, dal vivo a Torino) la musica di Kamasi Washington non è interessante, a prescindere da come vogliamo chiamarla. È una gioiosa jam session funk, sostenuta da alcuni buoni solisti (su tutti il tastierista Brandon Coleman), in cui è però difficile cogliere una ricerca musicale o sul suono, o un qualche discorso compositivo: a un certo punto, nella serata torinese, arriva addirittura una versione funk di “Cherokee” che non stonerebbe in un club jazz al lunedì sera.
Non che – sia chiaro – sia obbligatorio che tutte queste cose ci siano, e ognuno apprezzi liberamente la musica che vuole e mandi a stendere il critico barboso. Eppure, la mia impressione è che lo hype ci stia dicendo di ascoltare qualcosa che – dentro quella musica – non c’è. Che ci stia dicendo di ascoltare Don Cherry, Coltrane, Sun Ra aggiornati ai suoni di oggi… e che invece stiamo ascoltando una musica anni settanta con dei suoni anni ottanta-novanta, una versione più fusion di Chick Corea o degli Azymut. Un revival, più che una qualche avanguardia: che sia allora veramente questa, la musica del futuro che ci tocca? Che tutto sia già stato fatto veramente?
Arca
Per fortuna arriva Arca a farci sperare nel futuro della musica, a confermarci che qualcosa si può ancora dire. L’anno scorso a Club to Club il producer venezuelano si era reso protagonista di un DJ set memorabile, insieme con i visual di Jesse Kanda. Nel frattempo è uscito il disco che porta il suo nome, che è già fra i dischi dell’anno: è il primo disco in cui Arca canta (il merito è di Björk, ha detto), in spagnolo, con voce di baritono che arriva ad altezze impensabili – androgina come androgino è il personaggio Arca.
Dal vivo la classe dell’Arca-producer e sound designer – quella che lo ha portato alla corte di Björk, Kanye West e FKA twigs fra i molti – passa in secondo piano. Talmente ingombrante e potente è l’Arca-performer che si tende a dimenticare la qualità di quello che succede in quel laptop lasciato incustodito sul palco. Arca si contorce su una passerella che attraversa la folla, scende fra il pubblico su una specie di trampoli con tacchi a spillo, si cambia d’abito, getta parrucche e veli da sposa, schiocca una frusta. Detto così potrebbe sembrare solo queerness di cattivo gusto. E in fondo lo è: la differenza è che Arca non è ironico, non suscita il sorriso. È dannatamente serio e sexy, è incredibilmente perturbante (come i visual sullo sfondo, che mostrano parti animali, frammenti di scene di sesso estremo, incendi, cose che spingono a distogliere gli occhi).
«Arca è davvero il punk 40 anni dopo, per la violenza del suono, per la centralità del corpo, per la provocazione, per come alza l’asticella di ciò che è consentito fare, mostrare e fare ascoltare in pubblico».
Si ha davvero l’impressione di vedere (e sentire, non dimentichiamolo) qualcosa di diverso. In un mondo di musica fatta al computer in cui il performer è spesso quello che schiaccia play e si limita a ritoccare in tempo reale gli esiti, quella di Arca è una performance nel senso classico, è uno happening. Arca, soprattutto, si prende il privilegio di polarizzare: si ama, si detesta: non consente sfumature. È davvero – come ha detto qualcuno – il punk 40 anni dopo, per la violenza del suono, per la centralità del corpo, per la provocazione, per come alza l’asticella di ciò che è consentito fare, mostrare e fare ascoltare in pubblico.
Il pop del futuro, molto probabilmente: ci sentiamo tra qualche Club to Club, per vedere chi aveva ragione.
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