Ronchetti, monologo di amore e di guerra

Rivale di Lucia Ronchetti inaugura la Neue Werkstatt alla Staatsoper di Berlino

Rivale Lucia Ronchetti Staatsoper Berlin
Foto di Thomas M. Jauk
Recensione
classica
Staatsoper, Berlino
Rivale
20 Ottobre 2017

Non si poteva scegliere titolo migliore per inaugurare la Neue Wekstatt, l’officina per la musica nuova nella rinnovata e ampliata storica sede della berlinese Staatstoper a Unter den Linden. Se la (finta) inaugurazione comunque in pompa magna – a cantiere ancora aperto e palcoscenico non ancora pienamente funzionale – ha ripiegato sulle schumanniane Scene dal Faust di Goethe firmate dal leading team del teatro Daniel Barenboim e Jürgen Flimm, per la Neue Werkstatt si è puntato su una novità commissionata per l’occasione a Lucia Ronchetti, della quale il teatro berlinese aveva già presentato due lavori non inediti nelle scorse stagioni.

In perfetta coerenza, dunque, con l’idea dell’officina con Rivale, lavoro che affonda le radici nel barocco francese del Tancrède di Campra e Danchet, Ronchetti sperimenta all’estremo l’uso di sincretici “ready made” musicali con risultati di singolare coerenza stilistica e eccezionale forza espressiva. Di Danchet viene usato il francese in versi ma per farne un monologo che ha per protagonista la principessa saracena Clorinda, che, nella totale assenza dell’oggetto d’amore e odio, fa pensare a una “Voce umana” pre-telefonia, se non all’angosciosa foresta dell’Attesa schönberghiana. Tre sono i momenti su cui si articola il tesissimo arco drammatico di Rivale presi della tragédie lyrique originale: la prigionia della donna nella tenda del campo cristiano e i sui tormenti per l’eroe nemico, l’inseguimento nella foresta incantata del mago Isménor e il tradimento della donna per amore, il combattimento e la morte per mano di Tancredi sotto le mentite spoglie del saraceno Argante sotto la cui armatura si cela Clorinda.

Uno scheletro metallico geometrico e pochi ed essenziali elementi di attrezzeria – un damascato abito nero, un’aristocratica gorgiera, parti di armature, una spada – sono gli ingredienti che impiega Isabel Ostermann per una messa in scena che ha il grande pregio di far parlare soprattutto la musica. Un parlare che si esprime attraverso un sincretismo lessicale espresso attraverso le corpose sonorità degli ottoni, la linea lirica della viola solista e gli scintillanti luccicori delle percussioni metalliche di sapore straussiano, e che prende a prestito pagine di Francesco Geminiani e Clement Jannequin per il vagare nella foresta, di Heinrich Biber, Annibale Padovano e Samuel Scheidt per la descrizione rituale della battaglia fra i rivali/amanti, ma anche del Mahler della Seconda sinfonia nella vertigine del precipitare tragico degli eventi e, appena accennato, dello Strauss delle Metamorphosen, per tacere delle stranianti divagazioni jazzistiche dei percussionisti.

Si parla di Tancredi e Clorinda e non si può non pensare a Monteverdi. E puntuale arriva il lamento di Clorinda morente, che qui è una melopea araba sui versi di Danchet, intonata dalla formidabile interprete unica di questo teatralissimo monologo che sembra ritagliato per le sue notevoli qualità espressive: parliamo di Amira Elmadfa, mezzosoprano di radici palestinesi, come denunciano i suoi lineamenti così marcatamente mediterranei. Di colpo, quell’insensato duello fra i due eroi dell’epos cavalleresco si proietta nel nostro quotidiano e ci rivela che lo stesso duello continua da secoli ma la sua insensatezza rimane intatta.

Folto pubblico concentratissimo, successo sincero.

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