La Biennale chiude in jazz
Venezia: Leone d'argento a Dai Fujikura e ultima serata con Enrico Rava
Se il Leone d’Oro è volato (si sa, a Venezia c’è questa caratteristica felina) in Cina, il Leone d’Argento della Biennale Musica 2017 prende la direzione del Giappone ed è stato assegnato a Dai Fujikura.
Come nel caso di Tan Dun – musicista in fondo profondamente occidentale – anche nel caso di Fujikura la formazione è tutta europea, essendosi trasferito a Londra a soli 15 anni (e la pagina Wikipedia a lui dedicata – per quanto possa essere affidabile, riporta addirittura che avrebbe conosciuto la musica tradizionale giapponese a Darmstadt!).
Di Fujikura il programma della serata presenta una sola composizione, un nuovissimo Concerto per corno e orchestra impreziosito dalla bella prestazione del solista Nobuaki Fukukawa alle prese con tecniche non convenzionali per estrarre dallo strumento sonorità a volte simili a uno shakuhachi vocalizzato o a un theremin.
Non ci è parso un lavoro particolarmente ispirato, anche se Fujikura è certamente un musicista interessante, di cui avremmo volentieri ascoltato qualche altro lavoro durante la serata. Il concerto è invece stato completato da due composizioni piuttosto inconsistenti della giapponese Malika Kishino (un concerto per koto e orchestra) e del cinese Guo Wenjing (qui lo strumento solista è il violino), suonate comunque con buoni colori e professionalità dall’Orchestra di Padova e del Veneto diretta con gesti ampi da Yoichi Sugiyama.
L’orchestra padovana – che aveva aperto il Festival e cui la Biennale sta dando giusta fiducia – è anche presente in un disco dedicato a Franco Donatoni e presentato la mattina del sabato dal suo direttore Marco Angius, stuzzicato dalle domande precise e garbate di Alberto Massarotto. Teniamocelo stretto, Angius. Non solo direttore di grandissima intelligenza e talento, che è riuscito in pochi anni a convincere e a essere convincente sul contemporaneo un’orchestra abituata a un repertorio classico. Ma anche intellettuale di grande profondità, come la chiacchierata di presentazione del cd ha confermato: con grande umanità e semplicità Angius mi è sembrato non solo avere le idee molto chiare su Donatoni (il disco raccoglie quattro lavori di periodi differenti, tra cui Abyss e i lavori “gemelli” Souvenir e Orts, che nascono da una rielaborazione dei materiali di Gruppen di Stockhausen), ma sullo sguardo con cui rileggere il Secondo Novecento.
La serata finale di questa Biennale Musica si è aperta con un progetto che sulla carta era molto intrigante. Il giovane compositore Alexander Chernyshkov, coadiuvato da Tempo Reale, ha infatti pensato a un ambiente sonoro abitato da una serie di oggetti tecnologici ormai obsoleti (stampante e aghi, vecchi scanner, floppy disk tra gli altri) e dove fare interagire due polistrumentisti e performer, con i dispositivi e gli artisti disposti su delle ideali “isole” e il pubblico tutto attorno su divanetti (bella l’ambientazione).
Nonostante la grande bravura di Dario Fariello e Alessandro Baticci, impegnati con sassofoni, flauti, ma anche aspirapolveri, tubi e molto altro, nonché alle prese con un serrato dialogo fatto di esitazioni, sovrapposizioni e interruzioni e nonostante alcune intuizioni “sonore” interessanti, il lavoro è stato complessivamente molto deludente. In primis dal punto di vista testuale e drammaturgico, che è sembrato arruffato e privo di una reale solidità performativa (spesso rifletto su quanto sarebbe utile ai giovani compositori una bella full immersion in quanto accaduto e tentato negli ultimi 30 anni di teatro performativo…). Anche un po’ più di coraggio nell’accorciare la durata del lavoro avrebbe probabilmente aiutato a far sì che alcune situazioni potenzialmente interessanti non si sfilacciassero. Onore comunque alla Biennale per avere dato l’opportunità di esplorare questa progettualità, meglio una cosa coraggiosa e poco riuscita piuttosto che una cosa inutile.
Alla Sala delle Colonne poi, splendido congedo da questa Biennale con il quartetto jazz del trombettista Enrico Rava, cui si è aggiunta la brava pianista giapponese (ma anch’essa da anni in Occidente) Makiko Hirabayashi. Nonostante gli anni e un recente periodo di riposo forzato, Rava è sembrato ispiratissimo e ha dato vita a un concerto di grande lirismo, usando solo il flicorno – meno stancante della tromba – e facendo danzare i consueti temi del repertorio che da un po’ di tempo porta in giro con i suoi giovani compagni di avventura, Francesco Diodati (chitarra), Gabriele Evangelista (contrabbasso) e Enrico Morello (batteria), davvero di grande bravura. Il pubblico, nonostante l’ora tarda, raccoglie subito l’energia speciale di Rava e tributa ai musicisti un affetto calorosissimo, ripagato da un bel bis con "My Funny Valentine".
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