L'Orfeo di Florez
Il tenore peruviano debutta il ruolo al Covent Garden
Recensione
classica
Alla Royal Opera House siamo andati con una curiosità: ascoltare il tenore peruviano Juan Diego Florez, debuttante in scena nel ruolo di Orphée - come forse fecero in molti a Vienna curiosi per Guadagni ed a Parigi per Lagrois. Con tanto dominio tecnico nel canto quanto espressività nella recitazione, messo a dura prova con una scena in cui l'orchestra ed il direttore sono al centro del palcoscenico su di una terrazza mobile e dietro gli interpreti, dominava con voce squadrata, forte e monocroma l'allegoria assoluta dell'artista - simbolo universalmente noto di una poetica fascinazione con cui soggiogare ogni specie animale, alberi e monti e vincere l'impietosa legge della morte. La versione è chiaramente quella che Gluck rivide insieme a Moline nel 1774 a Parigi, dove i castrati non erano di moda, ma la tragédie lyrique con i suoi balletti e divertissement di certo. Questa produzione londinese è parte di Hofest, quattro settimane di performance tutte interpretate dalla compagnia di danza del coreografo Hofesh Shechter: allora via con circa quarantacinque minuti di coreografie di danza. Shechter, di indubbia fama, rende questi momenti spesso epicentro della messinscena - un po' troppo quando anche Eurydice accenna qualche passo di danza nell'aria ’Cet asile’. Ovviamente in scena non abbiamo visto caverne, boschi, inferi e campi elisi, ma sobrietà e tanto spazio e profondità sempre uguale - appunto, per ballare. Una sedia per il protagonista e un mezzo scheletro di manichino della moglie, che brucia all'inizio e poi scompare per ribruciare alla vera fine dell'opera, ed il cui simbolismo di morte voluto dal regista John Fulljames ha destato non poca perplessità. Il palcoscenico era disordinato e privo di narrazione teatrale; semmai sarebbe dovuto essere proprio il contrario. In effetti già la versione francese perde sia molti dei diversi timbri e particolarità strumentali, nell’orchestrazione semplificata, sia quei giochi di simmetrie ed opposizioni Orfeo/altro personaggio/coro – per cui si fa fatica a seguire i sentimenti del protagonista. Il godimento è tutto estetico, come nella discesa del cantore agli inferi in cui la musica incalzante, diretta da John Eliot Gardiner, la danza terrorizzante degli spiriti infernali ed il coro, i Monteverdi Choir, fresco e ben delineato nei timbri, rimandano a culti esoterici come l'Orfismo. Già, sul podio proprio Gardiner, convinto filologo che in passato alla versione parigina aveva sempre preferito l'originale viennese (1762), ed al tenore un contro tenore, dicendo nel saggio di Patricia Howard (1981) che la prima versione è una musica straordinariamente pura, coincisa e diretta. Ma nell'arte come nella vita col tempo si cambia. Un plauso va dunque a lui ed all'orchestra English Baroque Soloists, che ha suonato benissimo, con subito uno squarcio di sonorità brillante nell'ouverture, riproducendo poi con il coro un inno luttuoso a dir poco solenne. Questa versione francese vuole l'orchestra numerosa e l'interpretazione meno intima. Ma Gardiner contribuisce alla riuscita dei cantanti con una concertazione agile, ben lavorata sugli archi e sui fiati solisti, per nulla enfatico nelle continue trombonate della partitura, con braccio quasi sinfonico in buon stile concitato barocco. Se al coro è stato dato il giusto peso, gli echi fuori dal palcoscenico, come nel caso delle trombe, sono stati mal articolati a causa della posizione dell'orchestra. La sensazione nel primo atto era che la voce di Florez venisse sempre dal basso e, soprattutto nelle parti di agilità come nell'aria ’espoir renaît dans mon âme’, era purtroppo coperta da essa. Per il resto Florez canta con il corpo, voce dosata con insinuante saggezza, piena e luminosa ma allo stesso tempo velluto. Poco accento nelle parole chiave, poco chiara nel francese e poca attenzione alle note troppo tenute Lucy Crowe Eurydice, bene invece il soprano americano Amanda Forsythe cupido. La riuscita di questo spettacolo sta proprio in Juan Diego Florez, nel passaggio di ruolo di Orphée da un’elegiaca, eterea bellezza del castrato ad un più eroico tenore, con una sposa rinnovata ed un matrimonio molto più terreste. Il lungo balletto finale, gesto sulla melodia e corpo sul ritmo, non ha stancato, se visto come unione dei loro sentimenti e lieto fine stile hollywoodiano - cose che al pubblico inglese piacciono. Ultima replica ed ancora il teatro di Covent Garden era stracolmo.
Note: Royal Opera House, Bow Street, Covent Garden, London, WC2E 9DD
Interpreti: Orphée Juan Diego Flórez, Eurydice Lucy Crowe, Amour Amanda Forsythe
Regia: Hofesh Shechter, John Fulljames
Scene: Conor Murphy
Corpo di Ballo: Hofesh Shechter Company
Coreografo: Hofesh Shechter
Orchestra: English Baroque Soloists
Direttore: John Eliot Gardiner
Coro: Monteverdi Choir
Luci: Lee Curran
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
classica
Saltata la prima per tensioni sindacali, il Teatro La Fenice inaugura la stagione con un grande Myung-Whun Chung sul podio per l’opera verdiana
classica
Jonas di Carissimi e Vanitas di cinque compositori contemporanei hanno chiuso le celebrazioni per i trecentocinquanta anni dalla morte del grande maestro del Seicento