Il gesto di Mehta
Il San Carlo di Napoli apre con Cajkovskij
Recensione
classica
Si parte. Tutto esaurito. Il pubblico infiamma il teatro di applausi. La stagione sinfonica del teatro di San Carlo è stata inaugurata da Zubin Mehta che torna a Napoli dopo pochi mesi a dirigere, in questa occasione, due sinfonie di Čajkovskij, n. 4 op. 36 e n.6 op. 74, rinunciando al cachet e destinandolo alla creazione di un fondo per l'acquisto di strumenti musicali qualitativamente migliori per l’orchestra. Di certo il sovrintendente sta svolgendo un buon lavoro in tal senso. Si auspica però la capacità ed il coraggio di affidare quest'orchestra alla bacchetta di un degno musicista che ne valorizzi suono e stile finalmente in modo stabile - senza andare oltralpe, pensiamo al livello di competitività internazionale conquistato dall'Accademia di Santa Cecilia al decimo anno di direzione musicale di Antonio Pappano. Curando costantemente l'orchestra si fa il bene del teatro. E ne giova anche il botteghino.
L'orchestra, cesellata da Mehta, su arcate mirate, su gesti ritmici caratteristici dei fiati e delle percussioni, su intrecci tra temi e volumi, suona con eleganza nell'insieme, interpretando al meglio colori e costumi di un uomo di teatro e di balletto, quale Čajkovskij era. Chi vuol vedere in questa musica al contempo le sofferenze e gioie del compositore, un programma di sentimenti nascosti, lo faccia pure, ma questo è un ascolto sonoro, timbrico che, quando riesce, punta sempre e solo al sublime. Fine ultimo di ogni esecutore. Intanto, i diversi temi sparsi nei complessivi otto movimenti sollecitano immagini salottiere, malinconiche, nostalgia russa alla Tarkovskij. L'anima dei napoletani, spesso nostalgici, appena sollecitata, non poteva non cogliere la suggestione.
La Quarta apre il concerto, piacevole ed eccitante da condurre. Il gesto tecnico subito emerge, non è mai fine a se stesso. Pause piene di suono prima del ritmo di fanfara iniziale, le arcate lunghe dei contrabbassi nei crescendo, il serrato pizzicato degli archi in velocità ma sussurrando dello scherzo, gli accenti delle trombe, il suono vellutato del fagotto nel finale, confluiscono in un muoversi del tempo prima adagio, incalzante sempre più stretto, poi mosso e capriccioso come deve. Il tempo in Čajkovskij spesso ci sfugge, impegnato da un materiale pulsante che lo sovrasta: adagio, andante, vivace, presto con fuoco - qui reso da Mehta ricco nella tavolozza timbrica sempre perno del sinfonismo russo.
Mehta fa ciò che la musica chiede, senza rischi, senza errori - e la sua esperienza permette un risultato sempre semplicemente bello. L'interpretazione è meno "pensata", non idealista. Il gesto è sobrio, piuttosto fermo, contenuto in ampiezza, mai troppo esagerato anche nei respiri e nelle arcate più lunghe dei canti appassionati come nell'inconsueto 5/4 dell' Allegro con grazia nella sesta, giusto e sempre efficace. La verità è che Mehta ha la capacità di far suonare su di una soglia impercettibile tra adagio ed andante, un tempo sospeso che in questo sinfonismo, e forse così solo in Mahler, si esalta.
Nel secondo tempo c'è ancora più voglia, ed allora via con la "Patetica": prima si ritarda, poi si stringe nei contrasti adagio/allegro non troppo, spesso coesi come un sogno, ricordo del passato, il tutto alternato ad improvvise esplosioni sonore, per ragioni interne alla partitura, che acuiscono il senso di drammaticità. I violoncelli espongono i temi, gli ottoni li declamano, i fiati qualche imperfezione nelle frasi a specchio, gli archi si muovono tra quartine di semicrome con assoluta leggerezza di musica di danza, enunciando le melodie in modo netto, proprio come il suo ammiratore Stravinskij lo voleva ricordare. Cristallina la simmetria introduzione/conclusione cupa sui registri bassi, e tutti i crescendo spesso in acceso ostinato ritmico, ed i ritorni ai temi sono ben costruiti senza scadere nel banale. Ma Mehta è uno dei rari che dal podio sanno far crescere un'orchestra (e a dicembre tornerà per Carmen).
Orchestra: del teatro di San Carlo
Direttore: Zubin Mehta
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