Ancora un ottimo spettacolo, il secondo presentato dall'Opera North al Ravenna Festival: la "Julietta" di Martinu (1938), presentata in prima italiana in una versione in lingua inglese, si è dimostrata - attraverso l'organico allestimento di David Pountney e l'ottima resa attoriale degli interpreti vocali - opera non secondaria nel teatro musicale del Novecento, occupandovi una posizione in linea con tematiche e tendenze letterarie internazionali e lontano dall'eclettismo con cui spesso si bolla l'autore.
Il programma di sala della seconda produzione dell'Opera North di Leeds ospitata dal Ravenna Festival informa che questa "Julietta - La chiave dei sogni" di Bohuslav Martinu (libretto dell'autore da una pièce di Neveaux) è in prima italiana: e c'è da rammaricarsi, perché il compositore cèco - che di teatro musicale ne ha scritto molto - vi si rivela penna di teatro non irrilevante, e meritevole di più frequente proposizione. L'invito ai teatri italiani è aperto, anche per quest'opera qui proposta non nell'originale in lingua cèca - che avrebbe mostrato meglio il suo rapporto con Janacek - ma in una versione in inglese, sembrata comunque efficace, curata dall'ottimo regista David Pountney. In una scenografia terrosa e ingombra di relitti di realtà, riflessa in un grande specchio in alto, non facilmente praticabile nella sua forte inclinazione, i cant-attori inglesi si muovono a loro perfetto agio, e - i protagonisti in prima linea, in primissima il magnifico Mischa di Paul Nilon, spalleggiato dalla Julietta di Rebecca Caine - cantano con grande solidità, anche se sono episodicamente sovrastati dall'orchestra. C'è insomma tutto l'occorrente per apprezzare un lavoro che fa leva su un intreccio fascinoso (la dualità compossibile di mondo reale e onirico, l'esistere di questo in un tempo eternamente presente e privo di ricordi effettivi - sostituiti dalle fantasie ideali, la figura della donna quale sostanza metafisica del sogno, ovvero di un desiderio di completezza e perfetta felicità da parte dell'uomo, l'unico a sognare), magari anche un po' sovrabbondante nei contenuti, ma incarnato in una musica raffinata senza sofisticazioni, lineare senza banalità, e soprattutto non eclettica: il nucleo linguistico attorno al quale Martinu si muove - siamo nel 1938 - è visibilmente e precisamente quello dello Stravinskij attorno al "Sacre", con sguardi prima (preziosismi timbrico-armonici post-Debussy) e dopo (neo-classicismo), ma senza troppe elevazioni al quadrato, nessuna strizzata d'occhio a jazz et similia (il rilievo di ostinati ritmici è tutt'altra questione), una grande attenzione alla chiarezza della parola-canto e un'ottima capacità di trovare i propri personali spazi di manovra inventivi attorno a questo nucleo. Dopo la musical comedy "One Touch of Venus", le maestranze inglesi hanno offerto a Ravenna un altro spettacolo di grande organicità, ma in un genere differente: una lezione, per chi vorrà impararla.
Note: Prima rappresentazione italiana
Regia: David Pountney
Scene: Stefanos Lazaridis
Costumi: Marie-Jeanne Lecca
Orchestra: Orchestra e Coro di Opera North
Direttore: Martin André
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