Aspettando un treno che non arriva
Ozawa conduce l'orchestra con raffinatezza e ne estrae tutte le peculiarità espressive, ricordandoci che in un particolare periodo della storia della musica "romanticismo" e "strutturalismo" vivevano sotto lo stesso tetto orchestrale.
Recensione
classica
Come è noto, la prima dell'opera Jonny spielt auf di Ernst Krenek intaccò in maniera violenta i canoni della regia operistica del periodo. Introducendo una serie di stratagemmi spettacolari, tra cui una locomotiva che invadeva la scena, il pubblico dell'esecuzione di Lipsia del 1927 andò letteralmente in visibilio. Che tuttavia il successo e la grandezza di quest'opera non siano da ricondurre a questi dettagli "scandalistici" è stato dimostrato dall'attuale allestimento dell'Opera di Vienna. Ovviamente l'eco della rappresentazione del 1927 rimane fortissima e influenza in un modo o nell'altro le aspettative del pubblico e una nuova regia dell'opera non può fare a meno di interrogarsi di fronte a questo dato di fatto. Nonostante i successi e le glorie di Jonny prima dell'avvento del Nazionalsocialismo, l'opera non si è ancora potuta ristabilire nei cartelloni delle istituzioni contemporane. E purtroppo, neanche il cast d'eccezione della serata Viennese è riuscito a fungere da magnete e ad attirare un numeroso pubblico.
Peccato, poiché se la stagione passata aveva stupito e convinto con la Jenufa di Janacek, lo stesso possiamo dire per il Jonny della stagione in corso. La ricerca del minimo comune denominatore di entrambi gli allestimenti è semplice e veloce: la bacchetta del direttore Seiji Ozawa, colui che oggi sembra incarnare più di tutti la teoria che il teatro musicale vive nella dialettica di voci e orchestra, e non nel predominio di uno dei due momenti. La mano del maestro è evidente fin dall'inizio nella ricerca e nella creazione di sonorità orchestrali che fanno dimenticare immediatamente il pressapochismo e la grettezza di molte orchestre "accompagnatrici". La partitura è approcciata in maniera sinfonica con cura del suono meticolosa, incentrata tutta sulla differenziazione nitida delle sezioni dell'orchestra e sulla fusione organica dei loro timbri. Ozawa conduce l'orchestra con raffinatezza e ne estrae tutte le peculiarità espressive, ricordandoci che in un particolare periodo della storia della musica "romanticismo" e "strutturalismo" vivevano sotto lo stesso tetto orchestrale. Non a caso alla fine della rappresentazione gli applausi più corposi sono per lui e per l'orchestra, poiché il pubblico – e non solo i numerosi compatrioti giapponesi presenti in sala – ha saputo e potuto percepire in maniera chiara questo tipo di approccio strumentale, straordinario e al di sopra della media. Ovviamente i cantanti non dovevano perdere questo treno e tutto il loro sforzo è stato nel non volere autoesaltarsi e nell'adeguarsi a questa concezione di opera paritaria, in cui musica e canto hanno lo stesso valore e in cui primedonne e simili non hanno vita facile.
Torsten Kerl nei panni del compositore Max è il più applaudito del cast vocale. In effetti la sua drammaticità quasi statuaria tiene i fili di tutta la rappresentazione, come un punto fisso a cui poter sempre guardare. La declamazione e il canto sono chiari, prosaici, pacato il movimento. Il compositore si distingue da tutti gli altri personaggi, che poi in definitiva esistono solamente in sua funzione, poiché nell'idea di teatro nel teatro di questo lavoro, personaggi della sua opera. La figura del compositore rappresenta il tratto d'unione con il passato, senza tuttavia scadere nel tradizionalismo e Kerl è perfetto nella definizione di questo passaggio, non solo musicale. Se a volte gli altri cantanti adottano alcune caratteristiche tipiche dell'operetta (non solo i personaggi femminili, ma anche Jonny e Daniello), Kerl non si scompone mai e non scade in atteggiamenti coquette e sembra volerci comunicare che l'opera è un genere che difficlmente potrà tramontare. Anita (Nancy Gustafson) sa mischiare egregiamente i registri seri e comici del suo personaggio, che in una mistura di erotico e drammatico, domina sulla scena come un leonessa nella savana. Grazie alla sicurezza impeccabile nelle parti canore, tutti gli interpreti hanno potuto approfondire la ricerca caratteriale del loro personaggio in tutte le sfumature.
Sulla scia del music hall e del cabaret parigino del periodo (non a caso sul palco sventolano i colori blu bianco e rosso) il corpo di ballo del teatro dell'opera scende in platea in mezzo al pubblico e adorno di boa e piume di struzzo introduce al pubblico – perplesso ma non reclamante - l'elemento erotico che pervaderà gran parte della lettura del regista Günter Krämer. Dire erotico, tuttavia, è quasi fuori luogo poiché le allusioni sessuali nei gesti e nei movimenti sono esplicite e alcune delle coreografie e della gestualità dei cantanti ricordano più i celebri movimenti del musical Rocky Horror Picture Show e dello strip tease che la graziosa sensualitá di una ballerina in tutu bianco candido.
In tutto ciò, però, non dobbiamo ricercare alcuna volgarità, ma freschezza e una possibile alternativa per attirare le attenzioni del pubblico. Yvonne (Ildikó Raimondi) e Jonny (Bo Shovhus) – entrambi neri - sono fenomenali nella mimica e nella danza.
Se in Kerl abbiamo letto l'estremo della pacatezza e della spiritualità, le due figure di colore si muovono, anzi ballano, sul filo dell'altro estremo emotivo. Tutto ciò avviene in maniera sfacciata, giocando sui limiti della tolleranza di un pubblico tradizionale e "borghese", ed è questo uno degli ulteriori punti forti della rappresentazione e elemento vincente della regia, che sostituisce alla spettacolarità della tecnica l'erotismo, che in realtà non è più spettacolare nella nostra società dedita al voyeurismo, ma è rarità sulle scene dei teatri operistici internazionali. Inoltre la regia tende a coinvolgere in tutti I modi possibili il pubblico. Tra le altre trovate spettacolari, Jonny scappa tra il pubblico della platea e porge a uno degli spettatori il violino rubato; anche le guardie inseguitrici violano lo spazio del pubblico e con torce elettriche illuminano il teatro da una nuova prospettiva. La regia, dunque, rinuncia a riprendere quei motivi che hanno reso famoso l'allestimento di Lipsia. Anche perché, come giustamente afferma Krämer in una recente intervista, ciò che negli anni Venti poteva essere una novità assoluta e stupire il pubblico (il telefono, per fare un solo esempio) è oggi parte della quotidianità più banale.
Alla fine, il treno della rappresentazione di Lipsia non arriva sulla scena, sebbene il pubblico forse lo avesse atteso. Al suo posto un'immagine filmata con effetto di tridimensionalità, e questo e tutto. Può darsi che questo non sia bastato a soddisfare le nostre aspettative, ma in fin dei conti, se si vuole vedere i treni arrivare, si va alla stazione e non all'opera.
Note: nuovo all.
Interpreti: Torsten Kerl; Nancy Gustafson; Bo Shovhus
Regia: Günter Krämer
Scene: Andreas Reinhardt
Costumi: Falk Bauer
Orchestra: Orchestra del Teatro dell'opera
Direttore: Seiji Ozawa
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
classica
Jonas di Carissimi e Vanitas di cinque compositori contemporanei hanno chiuso le celebrazioni per i trecentocinquanta anni dalla morte del grande maestro del Seicento
classica
Il primo pianista francese a vincere il Čajkovskij di Mosca conquista il pubblico milanese con un interessante quanto insolito programma.