Caleidoscopio cubano

El Cimarrón, recital per quattro musicisti (esecuzione in forma scenica) di Henze, è stato realizzato presso Macerata nella programmazione congiunta dello Sferisterio e del Festival Terra dei Teatri, in un ottimo ed incisivo allestimento: curato da Brockhaus, puntava tutto sull'elemento naturale della pietra e su un efficacissimo uso delle luci, oltreché su una componente interpretativo-musicale di ottimo livello. Successo pieno.

Recensione
classica
Festival Terra dei Teatri Appignano
Hans Werner Henze
18 Luglio 2003
Il Cimarrón del titolo altri non è che Esteban Montejo, un leggendario vecchio cubano che negli anni '50, ormai novantenne, raccontò la sua biografia di ex-schiavo ribelle a Miguel Barnet. Nel 1968, Hans Magnus Enzensberger e Hans Werner Henze scelsero il libro per ricavarne i testi di songs politici scritti con mezzi linguistici più avanzati di quelli usati da Weill, Eisler e Dessau; ciò che ne venne, due anni dopo e un soggiorno a Cuba di mezzo, è tutt'altro che una sequenza di songs dal carattere musicale sperimentale, anche se la matrice epica del teatro con cui i due autori intendevano confrontarsi a distanza è rimasta sottotraccia, il testo si è articolato in 15 isole tematico-autobiografiche senza asservirsi ad una qualsiasi forma-canzone e, perciò, l'attitudine alla sperimentalità sonora ha potuto avere libero corso. Questo "recital per quattro musicisti" costituisce, infatti, il lavoro forse più riuscito tra quelli in cui l'Henze di quegli anni si mette alla prova con i materiali e le formanti linguistiche consegnategli dal decennio musicale "sperimentale" per eccellenza: la sintesi col suo fondo espressionista e con gli apporti già ad esso sintetizzati (Stravinskij su tutti) è equilibratissima, decantata, e riesce ad avvalersi, senza fratture di pensiero, della semiografia e della retrostante la concezione aleatoria. Il tutto conduce ad un'idea di teatro del suono, e di qui ad un "concerto scenico", al quale partecipano i tre strumentisti al pari del performer vocale: questi si muove essenzialmente nell'orizzonte di uno Sprechgesang sublimato e memore - ma non succube - della sua matrice espressionista, qui intelligentemente epicizzata; quelli sono chiamati a montare i pannelli sonori in una rete di relazioni da costruire, anche rinunciando alla loro specializzazione (flautista e chitarrista eseguono anche alle percussioni, strumenti-segno del vivo contesto dell'esperienza esistenziale vissuta dal Cimarrón), ma tenendo fermi al centro della scrittura i loro normali nuclei timbrici. Anche timbri ed eventi sonori altri entrano, così, in un gioco di tensioni sottili, profondamente teatrali, e - nel relazionarsi con la parte del vocalista - si pongono quasi come scoperta interiorizzata del suono della vita, che venga sia dalla natura (la foresta, gli spiriti...), sia dalla cultura (le macchine, la falsa libertà della città post-coloniale...). Tutto questo per dire che l'allestimento in forma scenica curato da Henning Brockhaus per lo Sferisterio di Macerata e il Festival Terre dei Teatri ha colto con pari equilibrio, ma anche incisività dei segni, tutte le virtualità dell'opera: realizzato nel Teatro della Pietra, un suggestivo piccolo spazio ad Appignano, ha puntato proprio sull'elemento naturale del luogo per far leggere e insieme vivere l'esperienza del Cimarrón al pubblico. Si era seduti su sgabelli fatti di pietre tenute assieme in forma cubica da una gabbia: la pietra, ovvero la durezza dell'esistenza dello schiavo, che è anche la scintilla che lo rende libero (Montejo scappa dalla piantagione dopo aver tirato un sasso al guardiano), finisce sempre ingabbiata da forme di organizzazione-sfruttamento socio-economiche: l'esperienza di Montejo è, sotto quest'aspetto, carica di disillusione, ma infine anche di consapevolezza e - a suo modo - di dignità, poiché egli sa che, per proiettarsi verso la sua libertà personale, dovrà lottare col suo solo grosso coltello. Il pavimento è riempito di arenella, che media i sedili in pietra con la nudità delle pareti; gli esecutori strumentali sono al centro, mentre il protagonista vi agisce disseminandovi i suoi propri gesti sonori, muovendosi per lo più intorno e fra il pubblico ed interagendo regolarmente con gli strumentisti; inoltre, cambia abito tra la prima e la seconda parte, in corrispondenza di uno snodo drammaturgico effettivamente presente nel testo: le 7 sezioni della prima parte riguardano la fase schiavista e definiscono il Cimarrón nella relazione personale con la natura, le 8 della seconda riguardano la fase biografica successiva e la relazione con gli altri, ma accentuano pure la tendenza ad aggregazioni non-narrative in favore di quelle tematiche. Lo spazio è riletto e trasformato con grande efficacia dalle luci (lode speciale per Franco Ferrari), che lo affocano spesso in bianco accecante ma lo virano anche in modo da seguire con eleganza quella scoperta immediata del suono che anima la partitura di Henze. Zelotes Edmund Tolliver è vocalmente straordinario nella parte del protagonista, e poi ha veramente il fisico del ruolo: alto, imponente, trova anche un suo equilibrio interpretativo tra le spinte epiche ed espressive della drammaturgia, privilegiando - nell'agire - più spesso le seconde. I tre strumentisti (Andrea Oliva ai flauti, Gianluca Gentili alla chitarra, Fausto Bombardieri alle percussioni), coordinati-diretti da Daniele Belardinelli (quasi un "suggeritore" del suono, che ha guidato con buona sicurezza la performance), sono assai bravi e ottimamente preparati in quelle sezioni che richiedono l'abbandono dei propri strumenti in favore delle percussioni: questi interventi sono tra l'altro importanti nella drammaturgia ritmica della pièce, che monta insieme ritmi tradizionali, popolari e coloniali cubani, in un caleidoscopio nel quale si riconosce la mano provetta dell'autore della Gatta Inglese. Il pubblico ha applaudito molto, sembrando apprezzare l'operazione nel suo complesso: una produzione, effettivamente, curata sotto tutti gli aspetti.

Note: esecuzione in forma scenica

Interpreti: Cimarrón: Zelotes Edmund Tolliver

Regia: Henning Brockhaus

Scene: spazio scenico: Benito Le onori; luci: Franco Ferrari

Orchestra: Andrea Oliva, flauti; Gianluca Gentili, chitarra; Fausto Bombardieri, percussioni

Direttore: Daniele Belardinelli

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