L'"Olandese volante" nelle policromie di Valerio Adami

Recensione
classica
Teatro di San Carlo Napoli
Richard Wagner
16 Marzo 2003
È soprattutto attorno al nome di Valerio Adami, che il San Carlo ha costruito il suo nuovo allestimento dell'"Olandese volante" di Wagner, proseguendo una linea di coinvolgimento di personalità dell'arte contemporanea, già sperimentata lo scorso anno attraverso la regia di David Hockney per "Turandot", e le scenografie concepite da Mimmo Paladino e da Arnaldo Pomodoro rispettivamente per "Tancredi" e per "Capriccio". Il segno nitido di Adami - con la sua caratteristica fusione di ascendenze che vanno dalla pittura gotica alla pop-art, dal fumetto alla grafica pubblicitaria - in effetti tende a prevalere sugli altri elementi visivi dello spettacolo visto al San Carlo, imponendosi all'attenzione dello spettatore attraverso grandi fondali dai colori luminosi che giganteggiano sulla scena alla stregua di vetrate medievali, traducendo gli elementi narrativi cruciali dell'opera in forme allusive e simboliche estremamente suggestive. La scenografia dunque tende a travalicare il suo tradizionale ruolo di sfondo ambientale, per farsi interpretazione analogica del testo musicale e base stessa di un allestimento costruito evidentemente secondo una direttrice anti-realistica, che ha d'altronde validissime ragioni d'essere nel teatro wagneriano. La regia di Jorge Lavelli si muove lungo tale direttrice, attribuendo alla vicenda un'impronta onirica che trova la sua radice nell'estasi visionaria di Senta, la cui ballata è intesa giustamente come perno dell'intera opera; tuttavia nell'attuazione di quest'assunto, le intenzioni dichiarate da Lavelli restano su un piano abbastanza virtuale, senza tradursi in forme pienamente convincenti. Se i costumi disegnati da Francesco Zito non "parlano" del carattere dei personaggi così chiaramente come si vorrebbe, restando peraltro abbastanza estranei all'atmosfera delineata dalle scenografie di Adami, alcune soluzioni sceniche risultano abbastanza macchinose e, nella realizzazione, persino un po' buffe: così l'idea di far apparire l'Olandese facendolo sbucare da una botola del palcoscenico ha ben poco di soprannaturale; mentre la scena di apertura del secondo atto - col coro delle filatrici diviso in gruppi cinque in cui una al centro funge da asse attorno a cui ruotano le altre - crea problemi non indifferenti alle coriste, sortendo un effetto alquanto confuso e impacciato. L'orchestra del San Carlo offre una buona prova, mostrando sufficiente disinvoltura anche nei passaggi più impervi, sotto una direzione, quella di Gabriele Ferro, che dà alla partitura accenti stilistici assai pertinenti. Il cast vocale dal canto suo non tradisce le aspettative della vigilia, in particolare il terzetto dei protagonisti. Albert Dohmen, chiamato a sostituire Ruggero Raimondi nella parte del protagonista, non fa certo rimpiangere il cantante italiano: imponente è la sua presenza sia sul piano scenico che sul piano vocale; Elisabete Matos, al suo esordio nel difficile ruolo di Senta, esce a testa alta dall'arduo impegno; Walter Fink è un Daland estremamente persuasivo. Ai cantanti e al direttore il pubblico tributa gli applausi più convinti, mentre all'indirizzo del regista si colgono non poche manifestazioni di dissenso.

Note: nuovo all.

Interpreti: Daland: Walter Fink; Senta: Elisabete Matos; Erik: Walter Pauritsch; Mary: Mette Ejsing; Timoniere (Steuermann): Jorg Schneider; Olandese: Albert Dohmen

Regia: Jorge Lavelli

Scene: Valerio Adami

Costumi: Francesco Zito

Orchestra: Orchestra del Teatro di San Carlo

Direttore: Gabriele Ferro

Coro: Coro del Teatro di San Carlo

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