Il "Fidelio" di Herzog

Recensione
classica
Teatro alla Scala Milano
Beethoven
31 Marzo 2003
Una massiccia costruzione di mattoni scuri, con quattro piani di ampi finestroni chiusi da inferriate, un po’ prigione, un po’ fornace o fabbrica ottocentesca, costruita con la ferocia e la miseria che sempre si accompagnano ai luoghi in cui lo spirito e il corpo sono ridotti in schiavitù: è questo il tetro scenario in cui Werner Herzog ha ambientato il suo Fidelio. Per tutto il corso del I atto, lentamente, la quadrupla teoria di finestre si illuminerà e popolerà di detenuti, che prenderanno a seguire la storia specularmente al pubblico. Questa stessa, imponente struttura, ideata da Ezio Frigerio, attraverso piccole ma significative modifiche rappresenterà la cella più nascosta e profonda del castello di Don Pizarro, dove Beethoven sprofonderà buona parte del II atto. Uno scenario soffocante nel quale, in entrambe le scene di passaggio alla luce – la prima a quella fugace e abbagliante della pietà, la seconda a quella calda e totalizzante della libertà e della gioia – l’apertura delle celle riuscirà commovente e rispettosa dei riferimenti politici e filosofici. Visto a quattro anni dal debutto, l’allestimento con cui la Scala inaugurò la sua stagione del 1999-2000 non ha perso il suo smalto e la sua profondità. La compagnia di canto è oggi omogenea e adeguata, anche se priva di voci eclatanti: Waltraud Meier è l’unica diva, accolta alla ribalta da un’autentica ovazione del pubblico milanese; la sua Leonora è ben recitata, sensibile ed elegante, ma la voce non ha più la flessibilità che le consentì di essere al tempo stesso una grande Kundry e un’ottima Donna Elvira. Nel registro centrale manca di agilità, mentre gli acuti sono spesso periclitanti, anche se mai del tutto fuori controllo. Così, se in “Komm, Hoffnung”, la splendida e impegnativa aria del I atto, non tralascia nessuna delle sfumature che si addicono all’anima sublime del suo personaggio, è negli acuti del quartetto del II atto, o nelle rapide scalette ascendenti del Finale, dove cioè la recitazione e l’eleganza non possono attenuare la percezione dei difetti, che fa intravedere il peggio. Laura Aikin ha il colore e la qualità vocale giusta per il ruolo di Marzelline, ma oggi anche a lei fa talvolta difetto l’agilità, specialmente nei passaggi virtuosistici di cui è infarcita la sua parte. Altrettanto adeguato il tenore Robert Dean Smith, nobile e drammatico quanto basta, ma piuttosto duro nel registro acuto. Il Pizarro di Eike Wilm Schulte è perfido e rabbioso senza accenti diabolici, e riesce a strappare un buon applauso nella sua terribile “aria di furore” “Ah, welch ein Augenblick”. Discreto e scenicamente adeguato il resto della compagnia, a partire dal Rocco umano e semplice di Hans Tschammer. Ancora una volta è la direzione di Muti a scaldare gli animi e a dividere; da un lato è innegabile che poche volte è capitato di sentire un Fidelio altrettanto serrato e drammaticamente efficace; la resa del secondo atto, in particolare, mette veramente a tacere coloro che ancora sostengono la fragilità drammaturgica dell’opera. E tuttavia sta proprio nella ricerca di una drammaticità “scenica” che Muti sembra talvolta non rendere giustizia alla partitura: in quei tratti in cui è il retaggio sinfonico a costruire l’ordito della musica, quel continuo allargare e contrarre i tempi e le dinamiche, quel soffermarsi sull’accento e sulla parola fanno perdere slancio alle forme, rischiando di disgregarle. Così, per esempio, nell’applauditissima Ouverture “Leonore n. 3”, classicamente anteposta al finale (alla faccia di ogni filologia: perché Verdi sì e Beethoven no?) il portare in primissimo piano certe linee melodiche, il dare dignità di motivo anche a delle bellissime formule di accompagnamento, allontana decisamente il Beethoven di Muti dalla tradizione tedesca; tanta è la sua propensione al canto e all’addolcimento delle spigolosità, che in diversi momenti pareva di ascoltare Schubert. La presenza di Bruno Casoni alla direzione del coro comincia a farsi sentire, e i due Finali tagliavano il fiato dalla bellezza, sostenuti da un’orchestra di altissimo livello sia come insieme sia come prime parti.

Interpreti: Ildar Abdrazakov, Eike Wilm Schulte, Robert Dean Smith, Waltraud Meier, Hans Tschammer, Laura Aikin, Matthias Klink, Alfredo Nigro, Ernesto Panariello

Regia: Werner Herzog

Scene: Ezio Frigerio

Costumi: Franca Squarciapino

Orchestra: Orchestra e Coro del Teatro alla Scala

Direttore: Riccardo Muti

Maestro Coro: Bruno Casoni

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

Jonas  di Carissimi e Vanitas  di cinque compositori contemporanei hanno chiuso le celebrazioni per i trecentocinquanta anni dalla morte del grande maestro del Seicento

classica

Napoli: Dvorak apre il San Carlo

classica

Il primo pianista francese a vincere il Čajkovskij di Mosca conquista il pubblico milanese con un interessante quanto insolito programma.