Il "Fidelio" di Herzog
Recensione
classica
Una massiccia costruzione di mattoni scuri, con quattro piani di ampi finestroni chiusi da inferriate, un po’ prigione, un po’ fornace o fabbrica ottocentesca, costruita con la ferocia e la miseria che sempre si accompagnano ai luoghi in cui lo spirito e il corpo sono ridotti in schiavitù: è questo il tetro scenario in cui Werner Herzog ha ambientato il suo Fidelio. Per tutto il corso del I atto, lentamente, la quadrupla teoria di finestre si illuminerà e popolerà di detenuti, che prenderanno a seguire la storia specularmente al pubblico. Questa stessa, imponente struttura, ideata da Ezio Frigerio, attraverso piccole ma significative modifiche rappresenterà la cella più nascosta e profonda del castello di Don Pizarro, dove Beethoven sprofonderà buona parte del II atto. Uno scenario soffocante nel quale, in entrambe le scene di passaggio alla luce – la prima a quella fugace e abbagliante della pietà, la seconda a quella calda e totalizzante della libertà e della gioia – l’apertura delle celle riuscirà commovente e rispettosa dei riferimenti politici e filosofici. Visto a quattro anni dal debutto, l’allestimento con cui la Scala inaugurò la sua stagione del 1999-2000 non ha perso il suo smalto e la sua profondità. La compagnia di canto è oggi omogenea e adeguata, anche se priva di voci eclatanti: Waltraud Meier è l’unica diva, accolta alla ribalta da un’autentica ovazione del pubblico milanese; la sua Leonora è ben recitata, sensibile ed elegante, ma la voce non ha più la flessibilità che le consentì di essere al tempo stesso una grande Kundry e un’ottima Donna Elvira. Nel registro centrale manca di agilità, mentre gli acuti sono spesso periclitanti, anche se mai del tutto fuori controllo. Così, se in “Komm, Hoffnung”, la splendida e impegnativa aria del I atto, non tralascia nessuna delle sfumature che si addicono all’anima sublime del suo personaggio, è negli acuti del quartetto del II atto, o nelle rapide scalette ascendenti del Finale, dove cioè la recitazione e l’eleganza non possono attenuare la percezione dei difetti, che fa intravedere il peggio. Laura Aikin ha il colore e la qualità vocale giusta per il ruolo di Marzelline, ma oggi anche a lei fa talvolta difetto l’agilità, specialmente nei passaggi virtuosistici di cui è infarcita la sua parte. Altrettanto adeguato il tenore Robert Dean Smith, nobile e drammatico quanto basta, ma piuttosto duro nel registro acuto. Il Pizarro di Eike Wilm Schulte è perfido e rabbioso senza accenti diabolici, e riesce a strappare un buon applauso nella sua terribile “aria di furore” “Ah, welch ein Augenblick”. Discreto e scenicamente adeguato il resto della compagnia, a partire dal Rocco umano e semplice di Hans Tschammer. Ancora una volta è la direzione di Muti a scaldare gli animi e a dividere; da un lato è innegabile che poche volte è capitato di sentire un Fidelio altrettanto serrato e drammaticamente efficace; la resa del secondo atto, in particolare, mette veramente a tacere coloro che ancora sostengono la fragilità drammaturgica dell’opera. E tuttavia sta proprio nella ricerca di una drammaticità “scenica” che Muti sembra talvolta non rendere giustizia alla partitura: in quei tratti in cui è il retaggio sinfonico a costruire l’ordito della musica, quel continuo allargare e contrarre i tempi e le dinamiche, quel soffermarsi sull’accento e sulla parola fanno perdere slancio alle forme, rischiando di disgregarle. Così, per esempio, nell’applauditissima Ouverture “Leonore n. 3”, classicamente anteposta al finale (alla faccia di ogni filologia: perché Verdi sì e Beethoven no?) il portare in primissimo piano certe linee melodiche, il dare dignità di motivo anche a delle bellissime formule di accompagnamento, allontana decisamente il Beethoven di Muti dalla tradizione tedesca; tanta è la sua propensione al canto e all’addolcimento delle spigolosità, che in diversi momenti pareva di ascoltare Schubert. La presenza di Bruno Casoni alla direzione del coro comincia a farsi sentire, e i due Finali tagliavano il fiato dalla bellezza, sostenuti da un’orchestra di altissimo livello sia come insieme sia come prime parti.
Interpreti: Ildar Abdrazakov, Eike Wilm Schulte, Robert Dean Smith, Waltraud Meier, Hans Tschammer, Laura Aikin, Matthias Klink, Alfredo Nigro, Ernesto Panariello
Regia: Werner Herzog
Scene: Ezio Frigerio
Costumi: Franca Squarciapino
Orchestra: Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore: Riccardo Muti
Maestro Coro: Bruno Casoni
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
classica
Jonas di Carissimi e Vanitas di cinque compositori contemporanei hanno chiuso le celebrazioni per i trecentocinquanta anni dalla morte del grande maestro del Seicento
classica
Il primo pianista francese a vincere il Čajkovskij di Mosca conquista il pubblico milanese con un interessante quanto insolito programma.