Ifigenia in Aulide e in Bicocca

La Scala fuori sede apre con Gluck, molte novità e molto successo

Recensione
classica
Teatro alla Scala Milano
Christoph Willibald Gluck
07 Dicembre 2002
Prima inaugurazione della stagione scaligera al Teatro degli Arcimboldi, ce ne spettano altre due, stando alle promesse. Ma non è la sola novità. Prima dell'andata in scena di Iphigénie en Aulide di Gluck, una voce dagli altoparlanti ha dato lettura di un accorato messaggio degli operai dell'Alfa Romeo che stanno rischiando il posto, mentre in sala almeno un responsabile di questa drammatica situazione era seduto. E non è finita. Dopo annose resistenze, sugli schienali delle poltrone sono comparsi i display con la traduzione del libretto, proprio come al Metropolitan. Alla buon'ora! Altra grossa primizia è che in barba alla tanto proclamata filologia, che fino a ieri bandiva dalla sala del Piermarini qualsiasi incrostazione depositata dalla tradizione interpretativa sulle partiture verdiane, nella nuova sede sembra regnare maggiore spregiudicatezza. Non solo è stato sostituito il finale del Terzo atto con quello ideato da Wagner nel 1847, ma è stata commissionata (non si capisce bene a chi) una traduzione francese del brandello di libretto tedesco. Risultato: cancellati i cori che facevano da cornice alla Passacaglia, anch'essa sparita. Una successione forse poco digeribile, ma che evocava parate militari con parrucchini incipriati e riportava indietro nel tempo le convenzioni. In cambio un recitativo di Diana di fascino astratto (non di corte, per intenderci, roba da Santo Graal), con un piccolo organico nascosto in scena, di seguito una conclusione più spicciativa e drammaturgicamente più pratica. La scelta di Muti ha di sicuro tolto una patata bollente di mano a Yannis Kokkos, che ha comunque firmato come regista scenografo costumista uno spettacolo di grande eleganza, pur senza troppi estri. La scena è occupata sulla sinistra da una scalinata bianca, mentre un muro mobile ora mostra ora cela un fondale con un boschetto alla Watteau (di poco precedente a Gluck). Uno specchio sospeso e debitamente inclinato ne propone una vista aerea, anche se con qualche inconveniente dovuto all'ampio ventaglio della sala. Nelle zone laterali della platea, dove capita di vedere riflettori in quinta, stavolta era anche riflessa la figura di un pompiere di servizio, ma poco male. I colori base sono bianco, nero e beige. Con anche dorature per i costumi degli armigeri e manti color pastello per i protagonisti. In palcoscenico gigantesche polene color legno, con pepli, non troppo formose come ci si aspetterebbe da navi da guerra, e abbastanza meste. Indicano la pressante spedizione per la Troade o danno magnificenza a probabili interni di un palazzo. Dei tanti balletti ne è rimasto uno nel secondo atto, con la coreografia di Mischa van Hoecke, che racconta dei prossimi eventi in Asia Minore. Modellini di nave esibiti da fanciulle, ripetuti scontri fra il guerriero con lo scudo nero e quello con lo scudo bianco, portatori di archi, di lance. Sempre rispettosi e emblematici dello spettacolo di corte che non deve mai turbare. Il merito della serata e dell'indubbio successo va a Riccardo Muti (eccezionalmente senza bacchetta), che ha affrontato Gluck senza timore di aprire le porte al patetico, ma mantenendo il tutto terso e controllatissimo. Il suo è uno sguardo più rivolto a Cherubini e a Spontini che all'eredità del teatro barocco. Il ricupero dei cinque minuti inventati da Wagner, sono in fondo la riprova di un desiderio di Ottocento che non si vede l'ora che arrivi. Il risultato è coerente e funziona alla perfezione, anche perché ben assecondato dall'orchestra che in quelle sonorità si trova a suo agio. Quanto ai cantanti, un plauso per Violeta Urmana (Iphigenie) e Daniela Barcellona (Clytennestre), entrambe voci e presenze sceniche premiate con calorosa accoglienza. Il secondo e soprattutto il terzo atto sono stati alla loro mercè. Qualche dubbio su Christopher Robertson, deludente specie nell'ampio finale del secondo atto, forse il momento più straordinario dell'opera, non reso come si vorrebbe per colpa della memoria di edizioni discografiche (Fischer-Discau o Van Dam che siano). Identico esito per Stephen Mark Brown (Achille), con la scusante che la sua è una parte infelice e, col senno di poi, si spera che possa presto trasformarsi in quella Don Ottavio. Il pubblico non era il solito di Sant'Ambrogio. Qualche politico di sguincio, poco o nulla del mondo di televisioni e sartorie, alcuni arrivi dalla provincia. Questi ultimi di ottimo auspicio. Anche se tra le novità della serata bisogna registare anche la sentenza del Tar che alla vigilia ha specificato come l'adozione del progetto dell'architetto Botta per la nuova sistemazione della Scala non abbia rispettato l'iter di legge.

Note: nuovo all.

Interpreti: Christopher Robertson / David Pittman-Jennings, Daniela Barcellona / Robynne Redmon, Violeta Urmana / Irini Tsirakidis, Stephen mark Brown / Robert Swensen, Ildar Adrazakov / Marco Spotti

Regia: Yannis Kokkos

Scene: Yannis Kokkos

Costumi: Yannis Kokkos

Coreografo: Micha von Hoecke

Orchestra: Orchestra del Teatro alla Scala

Direttore: Riccardo Muti

Coro: Coro del Teatro alla Scala

Maestro Coro: Bruno Casoni

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