Il tema dell'innocenza violata percorre tutta l'opera teatrale di Benjamin Britten come un ossessivo Leitmotiv. The Rape of Lucretia (prima rappresentazione 1946, un anno dopo Peter Grimes) è la prima e unica nella quale questo tema sia tradotto al femminile. Lucretia, famosa per la sua virtù tra le donne romane durante l'epoca del dominio etrusco (le fonti sono Tito Livio e Shakespeare), viene concupita dal conquistatore Tarquinius e stuprata nel suo letto mentre sogna il ritorno di suo marito Collatinus. Non reggendo alla vergogna, e soprattutto non accettando nella sua purezza l'infamia, Lucretia si uccide davanti a Collatinus, benché questi le assicuri il suo amore e le dichiari che nessun corpo può essere violato se lo spirito si oppone. Troppo tardi. Ai sopravvissuti non resta che trarre l'amara morale, confidando in una fede superiore capace di combattere la disperazione con la speranza. Credo quia absurdum. Nonostante la verbosità del libretto The Rape of Lucretia ("Lo stupro di Lucretia") è un capolavoro di geniale drammaturgia. Otto personaggi si avvicendano in quattro scene suddivise in due atti, e ogni scena è cadenzata da interludi affidati a due cori, impersonati da un solo cantante per parte, soprano e tenore: tocca a loro svolgere la funzione di narratori e commentatori fuori scena. All'universo maschile rappresentato da Tarquinius, Collatinus e Junius (voci di baritono e basso) si contrappone l'universo femminile rispecchiato da Lucretia e dalle sue compagne, un'anziana nutrice e un'ancella: ed è come se due mondi musicali e morali si contrapponessero l'uno all'altro. Lucretia (contralto) è un personaggio disegnato a tutto tondo, sorta di eroina di un Puccini e di uno Strauss depurati con un'inflessione di tenerezza e di pudore che sono tipici di Britten. L'orchestra è costituita da diciassette strumenti per tredici esecutori, e alterna momenti di prodigioso virtuosismo solistico (compreso il pianoforte che accompagna i recitativi) a ripieni di straordinario vigore drammatico. Storicamente il lavoro appartiene al genere dell'opera da camera, ma per spessore e sostanza ha tutta la dignità di un'opera vera. Firenze l'ha finalmente presentata per la prima volta al suo pubblico, convogliato per l'occasione al Teatro Goldoni (trecento posti per un luogo alternativo di qualità) in un allestimento proveniente dal Teatro Carlo Felice di Genova. Non una ripresa di routine, ma una vera e propria nuova preparazione: dai risultati anche migliori, se il ricordo non ci inganna, di quella precedente (l'onore va comunque diviso equamente tra i due teatri per un'operazione esemplare). L'efficienza musicale era assicurata da un direttore a noi sconosciuto, Alistair Dawes, rappresentante di quella scuola inglese che in questo repertorio è non solo nato e cresciuto ma anche elettivamente di riferimento: la scuola dei Davis e dei Tate, per intenderci, se non di Britten stesso. Inglesi erano per lo più anche i cantanti, di assoluta eccellenza per doti sceniche e vocali. Ma ancor più inglesi di loro, nel senso migliore del termine, risultavano anche i solisti dell'Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, la nostra Debora Beronesi (nella parte del Coro femminile) fiorita a splendida maturità, la sorpresa Davide Damiani (Tarquinius) e l'incantevole Annie Vavrille: credibile sia nella sua sensualità sia nella sua ostinata e violata castità. Essi rispondevano perfettamente a ogni sollecitazione del regista Daniele Abbado, autore di uno spettacolo elegante ed essenziale, intelligente e raffinato, teso e chiaro (vedi la scena dello stupro, di emozionante, pudica drammaticità: dunque efficacissima): salvo l'abuso di qualche simbolo esplicativo talvolta un po' scontato (lager e scene di guerra) nelle proiezioni video sovrapposte all'azione, e tuttavia sempre realizzate con magnifica classe da Luca Scarzella. L'autore di scene, costumi e luci (queste ultime davvero magiche) era Giovanni Carluccio, bravissimo come sempre. Un team professionalmente affiatato sotto la guida di un regista che, se non portasse il cognome che porta (o lo portasse con meno rigorosa serietà), sarebbe ormai anche ufficialmente riconosciuto come il migliore della sua generazione. Il pubblico sembrava stupito di scoprire un tesoro la cui l'altezza di profilo (artistico, spirituale, umano) si legava a emozioni di palpitante attualità. Sicché dopo le parole finali "Da quando Tempo e Vita hanno avuto inizio, il grande amore è sempre stato profanato dal fato o dall'uomo", ha dimostrato tutta la sua commossa adesione, non retorica né, si spera, effimera. Unita comunque alla gratitudine per un autore che insegna come anche il teatro del nostro tempo possa decorare di canto la tragedia umana.
Note: all. del Teatro Carlo Felice di Genova
Interpreti: Ovenden, Beronesi, Ewing, Hargreaves, Damiani, Vavrille, Sborgi, Colonna
Regia: Daniele Abbado
Scene: Gianni Carluccio
Costumi: Gianni Carluccio
Orchestra: Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore: Alistair Dawes
Coro: Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Maestro Coro: José Luis Basso