Un Falstaff assottigliato

Edizione immersa in una genericità interpretativa che non rende giustizia né all'opera né al teatro che la allestisce. I protagonisti sembrano più preoccupati di evitare le trappole della partitura che di offrire vere emozioni al pubblico.

Recensione
classica
Teatro Regio Torino
Giuseppe Verdi
20 Febbraio 2001
Dopo tanto parlare, tanto affannarsi in attestati d'amore, ci si sarebbe aspettati che quest'anno i teatri lirici italiani riservassero a Verdi un'attenzione particolare: che concentrassero gli sforzi per porgergli un sincero e accorato omaggio. A stagione inoltrata, diversi segnali dimostrano il contrario, e sembra ricordarlo anche questo Falstaff, che se sarebbe risultato mediocre in qualunque momento, adesso, in mezzo a tanto reverenziale baccano, assume quasi i contorni di uno sberleffo; la cosa fa particolarmente rabbia in un teatro come il Regio, che sa fare grandi cose, quando vuole. Sul podio un direttore che non ha mostrato alcuna propensione allo scavo di una partitura sulla quale basta chinarsi per trovare una pietra preziosa. I tempi erano corretti e, a parte qualche momento di marasma nei grandi (e difficilissimi) concertati, mai si è davvero rischiato il naufragio; ma che tristezza sentir passare così, tutto immerso in un generico mezzoforte (o troppoforte) l'ultimo, miracoloso regalo di Verdi al melodramma. Renato Bruson è stato un Falstaff di gran classe; ora si è rifugiato in una corazza di genericità interpretativa della quale si libera solo per dare qualche zampata, talvolta magistrale talaltra più greve. Sullo sfondo di questa scelta si intrecciano diversi fattori: uno, naturalmente, è l'usura della voce. Bruson attacca di potenza le note che sente sicure, e tende naturalmente a pattinare laddove sente avvicinarsi un rischio, anche se questo rischio cade su un passaggio drammaticamente importante (cosa che, del resto, in quest'opera avviene sempre); e così che il personaggio perde spessore, e nessuno potrebbe soffrirne più di Falstaff. Stefano Antonucci era un Ford complessivamente accettabile, così come il Fenton del giovante maltese Joseph Calleja, anche se entrambi più di una volta hanno lasciato temere il peggio; quest'ultimo, in particolare, ha buttato via uno dei passaggi più straordinari dell'opera (l'unico d'altronde che lo vedrebbe solo in scena): il meraviglioso sonetto del bacio nella scena della foresta. Il resto delle voci maschili ha oscillato tra il decisamente negativo di Paolo Barbacini, Pistola alquanto scarica (parafrasando Sir John), al sufficiente di Andrea Silvestrelli, passando per il piuttosto mediocre di Ugo Benelli. Le cose sul versante femminile sono andate meglio, soprattutto grazie a Rossella Ragatzu, che ha sfoggiato una voce bella e duttile, unita a una buona sicurezza tecnica. Accanto a lei la deliziosa Nannetta di Maria Costanza Nocentini, vocalmente non imperiosa ma dolce e commovente come il personaggio richiede. Discrete la Zilio e la Storti, eccellente, ancora una volta, il coro. Scene fantasiose ma non belle, contrastanti con costumi belli ma convenzionali. Niente sorprese neppure dalla regia, tendente a straripare di continuo in sala, come se quindici metri di palco non fossero sufficienti per la pancia di Falstaff; e su un'enorme pancia si apre la scena della taverna (senza motto né impresa); poi anche la pancia si apre, e mostra un'intera cantina di salumi: Falstaff però, che prima vi svettava sopra, rimane scoperto su un alto seggiolone da arbitro di tennis. Così, assieme alla musica, passa anche il teatro, con qualche idea isolata subito contraddetta e confusa dal seguito, in un volo leggero e senza colpi d'ala.

Interpreti: Bruson/Coni, Antonucci/Vitelli, Calleja/Guadagnini, Benelli/Bonfatti, P. Barbacini/Porri, Silvestrelli/Svab, Ragatzu/Orciani, Nocentini/Auyanet, Zilio/Marchi, Storti/Riello

Regia: Stefano Monti

Scene: Antonio Mastromattei

Orchestra: Orchestra del Teatro Regio di Torino

Direttore: Maurizio Barbacini

Coro: Coro del Teatro Regio di Torino

Maestro Coro: Bruno Casoni

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