Orfeo a Versailles

Successo per l'opera di Luigi Rossi

Recensione
classica
Ricchezza melodica e turgore polifonico nell’Orfeo di Luigi Rossi (1647), rappresentato in Francia davanti a un Luigi XIV bambino: tra sonorità alla Palestrina e l’esuberante versione napoletana della Poppea di Monteverdi, di cui si riconoscono calchi melodici e situazioni (Euridice si addormenta invocando Amore, come Poppea). Rispetto ai libretti veneziani di Busenello, la drammaturgia è acerba: per esternare i loro sentimenti, i personaggi non fanno altro che ricordare e citare “canzoni”, così Orfeo diventa un musical del Seicento. Sorprende quanto Rossini ci sia già in Rossi: snodi drammatici, colpi di scena – il buio improvviso durante le nozze, commentato da un concertato di stupore – anticipano Semiramide; il proliferare dei personaggi e l’occasione celebrativa ne fanno una specie di Viaggio a Reims; la canzone onomatopeica di Aristeo, Momo e Satiro è puro nonsense, meccanizzazione della parola. L’opera dovrebbe però chiamarsi Euridice, dato l’ampio spazio concesso a una protagonista che canta anche da morta e all’innamorato respinto Aristeo, la cui disperazione si converte in stalking, femminicidio e scena di pazzia – uno dei pezzi forti della partitura.

A Versailles cast perfetto, per virtuosismo scenico e vocale – spicca il brindisi scatenato e imbarazzante di Marc Mauillon (Momo) durante il banchetto di nozze. Direzione lussureggiante di Raphaël Pichon, che guida il nutrito (tre clavicembali!), magnifico ensemble Pygmalion: è il barocco di nuova generazione, in equilibrio tra i languori della Haïm e le contaminazioni irriverenti alla Pluhar. Regia di Jetske Mijnssen attenta a testo e musica, giocata su gesti ed espressioni. Scena quasi fissa, interno sobrio ed austero con alte pareti in legno, in cui si svolgono pranzo nuziale e cerimonia funebre. Costumi eleganti, copricapi fantasiosi per i mostri infernali. Un folto pubblico assiste col fiato sospeso per tre ore, al termine delle quali decreta una lunga ovazione.

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