Le muse di Aperghis a Biennale Musica

Si chiude l’edizione 2015 con un omaggio al compositore

Recensione
classica
Con la consegna del Leone d’oro a Georges Aperghis si è conclusa l’edizione annuale della Biennale Musica, di cui riferisce Enrico Bettinello nel suo blog. L’impressione è che quella del 2015 sia stata un’edizione con più di un motivo di interesse, ma che ha confermato la sostanziale rinuncia allo storico ruolo di vetrina delle tendenze nel campo della musica contemporanea (è ben più agguerrita oggi la concorrenza internazionale) e l’ancora gracile sostegno alle forze più giovani (ci vorrebbero ben altre risorse al College della Biennale). E, Leone d’oro a parte, anche l’omaggio a un rivoluzionario del linguaggio del teatro musicale si esaurisce piuttosto sbrigativamente con un incontro pubblico a Ca’ Giustinian e con la riproposta al Teatro delle Tese nel cuore dell’Arsenale di un solo lavoro del compositore, Machinations del 2000.

Nell’articolato programma 2015 consacrato al “Suono della memoria”, la presenza di Aperghis e del suo Machinations è spiegata dal direttore Ivan Fedele come atto di testimonianza di un lavoro fondato su «un linguaggio “immaginario” ispirato a un concetto di “memoria” intesa come “riflessione sulla storia del linguaggio umano”, della sua evoluzione e delle rappresentazioni del mondo che ne scaturiscono.» E ancora, «Machinations ci conduce sui sentieri della memoria attraverso gli archetipi del linguaggio che si destruttura e si ricostruisce attraverso sintassi di straordinaria fantasia e invenzione».

In principio era il fonema... Ma prima tocca a qualche protocollare discorso ufficiale, del Presidente della Biennale Paolo Baratta seguito da Ivan Fedele e quindi dal festeggiato Aperghis che laconicamente si augura che il Leone alato possa essergli fonte di ispirazione per gli anni a venire nel suo atelier parigino. Ossia San Marco aiutaci tu. Intanto, per la sua festa veneziana, si riesuma l’allestimento di Machinations firmato dallo stesso Aperghis con luci e video di Daniel Levy per il Festival di Witten di una quindicina di anni fa prodotto dal bouleziano IRCAM.

Quattro banchi allineati per le quattro performer e, dietro, quattro schermi, che rimandano le immagini delle microcamere puntate sulle superfici dei banchi. Le performer attaccano un intreccio vocale fatto di fonemi disarticolati, “unicellulari”, evocazioni di una immaginaria lingua ancestrale. Un magma sonoro a dominanza vocalica via via prende forma arricchendosi di consonanti e infine sagomandosi in frasi di senso (in)compiuto e dalla struttura grammaticalmente rigorosa, come le regole dei giochi evocati (i dadi, il gioco dell’oca, il bridge e gli scacchi, questi ultimi secondo il Lewis Carroll di Attraverso lo specchio). Non è il senso che conta: quello di Aperghis è un teatro di parola che non veicola un senso ma che trova il suo senso nell’essere entità puramente musicale. Ma teatro è anche immagine e Aperghis integra la dimensione dell’ascolto con le proiezioni “live” di mani e volti delle performer, di testi e di scorci di oggetti animati e riflessi posti sotto l’occhio immobile della telecamera: libere (ma non troppo) associazioni alla dimensione sonora. Ossia, secondo Ivan Fedele, paradigma di quel “fare musica da/di tutto” del compositore. Che poi, parlando del greco di nascita Aperghis, non può non ricordarci che μουσικέ (mousiké) chiama in causa tutte le Muse e non solo Euterpe.



Come già nel 2000, anche a Venezia le quattro muse erano ancora Sylvie Levesque, Donatienne Michel-Dansac, Sylvie Sacoun e Geneviève Strosser, rodatissime all’impervio lessico aperghiano. Olivier Pasquet (con Tom Mays) curava l’informatica musicale e interveniva sporadicamente con stimoli vocali opportunamente deformati dall’elettronica. Il pubblico, accorso numeroso per la festa a Aperghis, salutava con calore insolito una personalità, certo appartatata, ma significativa del nostro tempo.

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