Guardando a Oriente

Il Festival d’Art Lyrique di Aix-en-Provence

Recensione
classica
La prima impressione è che quella del 2015 sia un’edizione un po’ sottotono del Festival d’Art Lyrique di Aix-en-Provence, specie se la si paragona ad anni recenti e magari a quella fastosa del 2013, quella di Aix e Marsiglia capitali europee della cultura. Dopo anni di prime assolute di grande spessore, nel 2015 praticamente nessuna novità in programma: “Svabda” di Ana Sokolović arrivava in prima europea a quattro anni dalla creazione nel 2011 a Toronto e “The Monster in the Maze”, l’opera per tutte le età dai 6 anni di Jonathan Dove fortemente voluta da Simon Rattle giungeva sulla sulla scena del Grand-Théâtre de Provence dopo le tappe di Berlino e Londra. Ma anche il cartellone maggiore, su quattro titoli presentava ben due riprese – il dittico “Iolanta” e “Perséphone”, un progetto commissionato da Gérard Mortier per il “suo” Teatro Réal nel 2012, e il ritorno del “Midsummer’s Night Dream” di Britten nello storico allestimento di Robert Carsen concepito proprio per Aix nel 1991.

Eppure, a guardare meglio, si vedono i fili della trama che l’oculata gestione di Bernard Foccroulle tesse per dare un futuro al festival. Un futuro che si sta costruendo su due pilastri. Da un lato, c’è il legame che si fa sempre più forte con un territorio che si spinge fino alla metropoli multietnica di Marsiglia e con le sue forze più giovani, grazie all’oramai consolidato pre-festival di giugno e ai progetti espressamente pensati per un pubblico più giovane (quest’anno, l’opera di Dove). Dall’altro lato, l’esperienza pluriennale dell’Académie du Festival d’Aix che si poggia sui suoi quattro pilastri – voce, musica da camera, creazione e orchestra, quest’ultimo con un legame sempre più stretto con l’Orchestre des Jeunes de la Méditerranée – che è sì orientato alla formazione degli artisti di domani ma si offre anche come complemento alla ricca programmazione del festival con i suoi frequentatissimi concerti nell’incantevole cornice del rinascimentale Hôtel Maynier d’Oppède.

Naturalmente cuore del festival resta il programma operistico capace di attirare un folto pubblico internazionale grazie alla sapiente alchimia di alta qualità e di originalità delle proposte. Se l’altro grande festival estivo, Salisburgo, è una rassicurante vetrina dello star system musicale, Aix sempre di più si presenta come rassegna di proposte fra le più interessanti del panorama europeo (e non solo), con un gusto che ricorda la truffautiana “politique des auteurs” debitamente adattata dove vincono decisamente le idee. In questo quadro si inseriva l’händeliana “Alcina”, spettacolo di altissimo livello, diretto da un’ispirato Andrea Marcon alla guida della formidabile Freiburger Barockorchester, che quest’anno conclude la residenza al festival. Il cast comprendeva alcune delle star odierne del barocco, tutti al debutto nei rispettivi ruoli, come Patricia Petibon, la cui statura di interprete cresce di pari passo con l’abbandono del cliché della barocchista folle, e Philippe Jaroussky, vocalmente impeccabile ma forse intimidito da una certa audacia nelle scelte registiche di Katie Mitchell. Chissà se “questo è il centro del goder” e ancora “qui l’eroi forma il piacer” hanno ispirato alla regista britannica l’idea di trasformare Alcina e la sorella Morgana (Anna Prohaska) in due vecchie tassidermiste per necessità dai vivaci e variegati gusti sessuali, che appaiono giovani solo agli occhi delle vittime maschili grazie all’ingegnoso scambio con body double invecchiate. La scena di Chloe Lamford, costruita su due livelli e scomparti come quella di “Written on Skin”, altro fortunatissimo spettacolo della Mitchell, traduceva il gioco fra illusione e realtà nel plastico contrasto fra l’eleganza del salone Luigi XVI al centro e il grigiore degli ambienti industriali tutti intorno. Godibile come un racconto cinematografico e musicalmente inappuntabile, quest’“Alcina” è stata decisamente uno degli hit di questa edizione, apprezzatissima dal pubblico.

Sempre al Grand-Théâtre de Provence non meno calore ha riservato il pubblico, comunque più scarso, al dittico Ciaikovskij-Stravinsky allestito per la scena da Peter Sellars con la direzione del geniale Teodor Currentzis. Convinti che fra i due lavori ci sia un legame profondo e spirituale, hanno entrambi messo in campo le proprie armi per convincere anche i più perplessi fra gli spettatori. Sellars lo realizzava attraverso la scelta della scena fissa di George Tsypin – praticamente un’installazione artistica fatta di cornici di porte, elementi scultorei dalle forme arcaiche e una serie di fondali dipinti con forme astratte – sapientemente illuminata e oscurata da James Farncombe e i severi costumi di cromatica omogeneità di Martin Pakledinaz e Helene Siebrits. Se la Mitchell spingeva sul pedale del realismo cinematografico per la sua “Alcina”, all’opposto Sellars costruiva una coreografia dal segno astratto per entrambi i lavori, due scomparti di una sacra rappresentazione. In questo era in perfetta sintonia con l’afflato mistico di Currentzis, che infiammava il pubblico con un’esaltata “Iolanta” (e ciò malgrado un finale di rara melensaggine) piuttosto che con la sua “Perséphone” di neoclassico algore. L’Opéra di Lione, dove lo spettacolo varrà riproposto nella prossima stagione, prestava i suoi complessi di ottimo livello. Addirittura superlativo il coro superlativo impegnato anche nella coreografia della “Perséphone”.

Di taglio più convenzionale invece il “Ratto dal Serraglio” andato in scena nello spazio all’aperto del Théâtre des Archevêché. Con la complicità del drammaturgo Albert Ostermaier, il regista Martin Kušej spostava l’azione dallo splendore dell’Impero Ottomano al 1920, ossia alle tenebre dopo il tramonto. Sono gli anni in cui le potenze vincitrici del primo conflitto mondiale definirono confini e assetti messi oggi in discussione. Sono anche gli anni in cui nasce lo jihadismo più o meno come lo conosciamo oggi. Per far quadrare il cerchio, Ostermaier e Kušej riscrivono (in parte in inglese) i vetusti dialoghi di Gottlieb Stephanie per far parlare di guerra e di petrolio. La scena è coperta di sabbia vera, c’è una grande tenda per Selim, la soldataglia come il collerico Osmin è vestita di nero. Insomma, c’era da temere il peggio, che infatti arrivava puntuale nel finale (che non riveleremo per non rovinare la sorpresa a chi vedrà lo spettacolo al Comunale di Bologna prossimamente). E questo nonostante l’intervento censorio della direzione artistica, per il quale si è gridato allo scandalo. Qualche eccesso a parte, lo spettacolo filava specie nella seconda parte grazie soprattutto agli affiatati interpreti: la brillante coppia “leggera” di Rachele Gilmore e David Portillo, quella corretta ma un po’ sottotono di Jane Archibald e Daniel Behle e il robusto Osmin di Franz-Josef Selig più cantante che caratterista, mentre Tobias Moretti (noto per la serie del “Commissario Rex”) disegnava un letteralmente torturato Selim. Per il piacere dell’ascolto si ritrovava in buca la Freiburger Barockorchester, tenuta un po’ troppo a freno da un fin troppo controllato Jérémie Rhorer attento soprattutto alla bellezza del suono. Per un festival che guarda sempre più da vicino al Mediterraneo inevitabile che le tensioni dei nostri tempi si riverberino anche sulle scene del festival. Aix però fa un passo oltre e annuncia per la prossima edizione una nuova opera commissionata a un compositore palestinese che porterà in scena racconti popolari nel mondo arabo. Un’opera che da Aix attraverserà il Mediterrano per approdare alla sponda meridionale, in Marocco, Tunisia e Egitto e quindi terminerà il suo giro nei paesi del Golfo. Un’opera che si fa ponte fra civiltà. Come dire che non solo l’opera si nutre del nostro immaginario quotidiano, ma magari prova anche a cambiarlo in meglio.

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