Il Leone con il cappellino da baseball

La Biennale premia Reich

Recensione
classica
In tutta la giornata – premiazione compresa - non si toglie mai l’inconfondibile cappellino da baseball, Steve Reich. Icona yankee declinata in un nero elegante e asciutto, ton sur ton con quella parlata veloce e tagliente con cui ricorda le lezioni di Berio di giorno e i concerti di Coltrane la notte.

La Biennale Musica onora con il Leone d’Oro il compositore americano, elemento scomodo da classificare in qualche schema (di certo assai più interessante se illuminato trasversalmente, in modo dinamico), anche se l’occasione obbliga a qualche banalizzazione e luogo comune.

L’incontro del pomeriggio è simpatico e informale: Reich ripete cose che ha detto già molte altre volte e le ripete quasi con le stesse parole con cui risponde all’intervista pubblicata dal "Giornale della Musica" nel numero di settembre (tanto che gli spettatori del concerto serale, cui viene fatto omaggio di una copia della rivista, avranno forse pensato a un eccellente caso di instant-magazine!).

Ecco quindi riapparire l’immagine del compositore come soggetto che per creare tiene aperta la finestra sul mondo, con l’immancabile esempio del povero Schönberg che sbarra la finestra e di cui nessun postino fischietta la musica a 100 anni di distanza, cose che, poste in questi termini semplicistici, se le dice Allevi – e le dice, magari non lo facesse… – tutti giù a scudisciarlo (giustamente, eh), se le dice Steve Reich si abbozza un sorrisino e via andare…

Ma il clima è giustamente rilassato e festoso e nella festa sfugge forse che questa immagine della finestra (intesa come limes, come soglia) tornerebbe molto utile per dare della musica di Reich una prospettiva più approfondita. Si resta invece sull’aneddotico già noto (dal viaggio in Ghana all’11 Settembre) e si preferisce raccontare di come il musicista si sia ispirato – per l’ultimo disco, di cui si ascoltano tre, abbastanza mediocri, estratti – a un paio di canzoni dei Radiohead (chiamati costantemente RadioheadS dal pur bravissimo Oreste Bossini che conduce la conversazione, in una sorta di perdonabilissimo quanto esemplificativo, piccolo lapsus di presa di distanza) piuttosto che raccontare quanto il linguaggio di Reich e colleghi coevi si sia sempre mosso in un’ottica di scambio reciproco con il mondo della popular music.

Ma il clima è giustamente rilassato e festoso e rimane tale anche alla cerimonia di premiazione, con Reich che con fascinosa malizia affida alla musica del concerto che sta per iniziare il compito di fare capire agli spettatori "se il premio sia meritato o meno".

La musica, allora. L’Orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari, alle prese con il Triple Quartet e con le sonorità urbane di "City Life", diretta da uno Jonathan Stockhammer particolarmente energetico con le sue movenze da folletto. Il triplo quartetto viene eseguito da tre quartetti "umani", senza ricorrere a parti registrate, scelta che fa guadagnare certo il lavoro in calore, quanto rischia di disperdere, complice qualche calo di tensione dovuto a una certa rigidità, la sensuale qualità ipnotica della partitura.

"City Life" – a mio modesto parere non è tra le cose più belle di Reich – invade gli spazi delle Tese dell’Arsenale con il suo vivace sovrapporsi di linee, voci e suoni di strada e in qualche maniera segna una volta ancora la sfasatura tra i mondi della contemporanea (che magari rischia di salutare qui come elemento di novità lo scratch afasico di una parola gridata, cosa che è ormai da decenni patrimonio spicciolo anche della house più commerciale e becera) e quelli della popular, per cui i mondi di Reich, magari conosciuti attraverso Pat Metheny o, chi sa, i già citati Radiohead, non rappresentano necessariamente una chiave di accesso verso linguaggi e forme più articolati.

Negli altri due concerti che hanno aperto il weekend, il pubblico veneziano ha potuto anche conoscere l’Eco Ensemble della Bay Area di San Francisco. Ottimi strumentisti per un repertorio che, tolti i più appaganti Nagoya Marimbas dello stesso Reich e la affabulante "Gnarly Buttons" di John Adams, non ha riservato particolari brividi, tra il passatismo calligrafico di Cindy Cox e lo Swing tutt’altro che swing di Franck Bedrossian. Interessante, anche se ancora un po’ carente dal punto di vista dell’architettura complessiva, è stato il gioco di specchi tra suoni registrati e loro riproduzione con gli strumenti in "Minuteman Trail", una prima assoluta di Aaron Einbond fatta di ronzii, bisbigli, vibrazioni che lavorano sul concetto di memoria.

La Biennale Musica riparte il 3 ottobre per la sua abituale “settimana” di concerti, mentre nella notte dell’Arsenale un leone dorato con un berretto nero si allontana, senza troppo rumore.

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